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Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo

del dott. Olinto de Pretto

In questo articolo ci proponiamo di esplorare e riscrivere in un linguaggio più accessibile e moderno il lavoro di Olinto De Pretto, originariamente pubblicato negli “Atti del Reale Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti” per l’Anno Accademico 1903-1904, volume LXIII, parte II, alle pagine 439-500. Il contributo di De Pretto, benché meno conosciuto rispetto ad altri lavori contemporanei di fisica, introduce diversi concetti rivoluzionari che anticipano alcune delle idee più influenti del ventesimo secolo, inclusa la celebre equazione di Einstein, E=mc², anticipazione questa che, a parere di chi scrive, è ben più di una semplice coincidenza basata su idee sbagliate riguardanti il concetto di etere.

Con l’intento di rendere il testo originale più accessibile al lettore moderno, abbiamo integrato il lavoro con alcune spiegazioni dei termini scientifici e dei concetti utilizzati, molti dei quali possono risultare obsoleti al pubblico attuale. Questa rielaborazione non solo mira a chiarire il significato e l’importanza delle idee di De Pretto, ma anche a collocarle nel contesto scientifico e culturale del suo tempo.

Indice

  1. L’attrazione e l’etere
  2. Attrazione, coesione e affinità
  3. Energia dell’etere ed energia latente nella materia
  4. Altri effetti delle vibrazioni dell’etere
  5. Del calore solare
  6. Rapporto fra la massa e la temperatura dei pianeti
  7. Come si possa mantenere e rigenerare l’energia nell’universo
  8. Altre conseguenze importanti dell’ipotesi
  9. L’ipotesi dell’etere applicata alle nebulose e alle stelle
  10. Conclusione

L’attrazione e l’etere

L’attrazione è quella forza che fa avvicinare e cadere i corpi gli uni verso gli altri. Questa forza non è evidente quando si esaminano corpi di piccole dimensioni, tranne che con strumenti molto sensibili, ma è chiaramente percepibile tra i corpi e la Terra, dove prende il nome di gravità. Si tratta sempre della stessa forza, e la grande differenza nella sua intensità è dovuta alla enorme massa della Terra.

Questa stessa forza mantiene i pianeti del nostro sistema solare in orbite fisse attorno al Sole e tiene insieme tutte le stelle e i sistemi dell’universo. Dal macroscopico al microscopico, è sempre la stessa forza che tiene uniti i corpi, mantenendo atomi e molecole strettamente legati. Questa forza universale è nota con diversi nomi: attrazione, gravitazione, gravità, coesione e affinità, a seconda del contesto in cui viene considerata. Ci sono sempre stati dubbi sul fatto che questa forza derivi da una proprietà intrinseca della materia, ma questa è l’ipotesi comunemente accettata per studiarne le leggi.

Cartesio, nella sua teoria cosmogonica, proponeva che i pianeti fossero spinti nelle loro orbite da un elemento che riempie lo spazio, con le orbite stesse create da sorta di vortici di questo fluido in movimento. Il centro di questi vortici sarebbe il Sole, attorno al quale i pianeti orbitano più o meno sullo stesso piano. A loro volta, pianeti come Giove, Saturno e la Terra, sarebbero centri di vortici minori che spiegano le orbite dei loro satelliti. Analoghi sistemi di vortici principali e secondari si trovano anche nell’aria.

Prima di Newton, Cartesio spiegava così la forza che mantiene i pianeti nelle loro orbite attorno al Sole e i satelliti attorno ai loro pianeti, ma questa visione è molto diversa dalla realtà come ci è stato rivelato dalla rivoluzionaria scoperta di Newton.

Secondo Cartesio, quindi, anche la gravità dipenderebbe da questi vortici di materia celeste. Per quanto riguarda la coesione, Cartesio dava una spiegazione che non corrisponde alla vera attrazione tra particelle. Infatti, secondo lui, i legami tra le particelle di un corpo non deriverebbero da una forza particolare, ma dal fatto che le varie parti sono in equilibrio statico reciproco. Quindi la coesione, e di conseguenza la resistenza delle particelle dei corpi a separarsi, sarebbe analoga a una sorta di inerzia. Newton, scoprendo le leggi della gravitazione, demolì l’edificio teorico di Cartesio, ma anche questo grande scienziato evitò di indagare sulla causa ultima dell’attrazione.

Ecco come Newton descrive questa forza nascosta:

Ritengo assurdo pensare che la gravità sia una proprietà innata, intrinseca ed essenziale della materia, tanto che un corpo possa influenzarne un altro a distanza, attraverso il vuoto, senza nessun mezzo che trasmetta questa azione o forza da uno all’altro. Tale idea mi sembra così irrazionale che non posso credere possa essere accettata da chi è abituato a ragionare su questioni filosofiche…

Fino ad ora ho descritto i fenomeni celesti e delle maree attraverso la gravità, ma non ho mai definito la causa di questa forza. Questa origina da qualcosa che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti senza perdere efficacia: non opera in base alla grandezza della superficie, come fanno le forze meccaniche, ma in base alla quantità di materia e la sua azione si estende in tutte le direzioni fino a distanze enormi, diminuendo proporzionalmente al quadrato della distanza.

La gravità verso il Sole deriva dalla somma delle attrazioni verso ciascuna delle sue particelle…

Non sono ancora riuscito a spiegare, attraverso i fenomeni osservati, il motivo di questa caratteristica della gravità e non formulo ipotesi.

È sufficiente che la gravità esista e che operi secondo le leggi che abbiamo descritto, e che possa spiegare tutti i movimenti dei corpi celesti e delle maree.” (H. Faye: Sur l’origine du Monde).

Le teorie vorticistiche di Cartesio non hanno resistito alle leggi scoperte da Newton, tuttavia le sue idee sulla materia hanno segnato un significativo progresso per la scienza. Per Cartesio, in natura esistono solo materia e movimento, e la materia è uniforme, con le sue diverse proprietà che emergono da divisioni e movimenti vari. Secondo lui, il vuoto non esiste; l’aria che circonda la Terra è un fluido sottile ma materiale; ancora più sottile è la materia che occupa lo spazio celeste. Esiste anche un elemento primordiale, l’etere, le cui parti impalpabili sono animate da movimenti estremamente rapidi (vibrazioni, ondulazioni). Tutti gli elementi sono sostanzialmente lo stesso materiale, più o meno frammentato o agitato (Faye, opera citata).

Non tutte le teorie di Cartesio sono oggi considerate valide, ma il suo principio dell’inerzia della materia rimane un concetto fondamentale da accettare fino in fondo.

Accettando questo principio fondamentale, dobbiamo escludere a priori che l’attrazione derivi da una forza intrinseca della materia, portandoci alla conclusione inevitabile che dipenda da una forza esterna. Questo richiede la presenza di un agente o di un fluido esterno che conferisce alla materia la tendenza ad attrarsi. Anche se si ipotizzasse che l’attrazione sia una proprietà intrinseca della materia, sarebbe comunque necessario un agente esterno che riempie lo spazio, come già ipotizzato da Newton, per spiegare come l’attrazione possa trasmettersi da un corpo all’altro. L’esistenza di un fluido, chiamato etere, è stata considerata essenziale per spiegare la trasmissione di luce e calore attraverso lo spazio. Newton, pur rinunciando a cercare la causa dell’attrazione, ha intuito profondamente le funzioni dell’etere, che lui descrive come lo spirito dell’universo. Ecco come ne parla:

… questo spirito sottilissimo penetra tutti i corpi e si nasconde nella loro sostanza. È grazie alla forza e all’azione di questo spirito che le particelle dei corpi si attraggono a piccole distanze e aderiscono quando sono vicine; è per mezzo di questo agente che i corpi elettrici agiscono a distanze maggiori, sia per attrarre che per respingere i corpuscoli vicini, ed è sempre attraverso questo spirito che la luce viene emessa, riflessa, rifratta e riscalda i corpi; tutte le sensazioni sono generate e le membra degli animali si muovono in risposta alla volontà attraverso le vibrazioni di questa sostanza spiritosa, che si propaga dagli organi sensoriali esterni lungo i filamenti solidi dei nervi fino al cervello e da lì ai muscoli. Ma questi concetti richiedono spiegazioni estese e non sono ancora state condotte abbastanza ricerche per definire precisamente le leggi secondo cui opera questo spirito universale.

Dunque, l’esistenza di questo fluido immateriale che riempie gli spazi è responsabile della trasmissione della luce, del calore e dell’attrazione stessa. L’etere, trasmettendo luce e calore, agisce come un agente passivo, poiché luce e calore preesistono nei corpi luminosi e caldi, proprio come l’aria trasmette il suono, ovvero le vibrazioni prodotte da un corpo sonoro. Invece, nel caso dell’attrazione, se consideriamo la materia di per sé inerte, il fluido che si pensa propaghi l’attrazione è in realtà il suo generatore. Immaginando l’attrazione come una forza intrinseca della materia, l’etere tra due corpi agirebbe come una corda tesa, mentre la forza di attrazione, supposta risiedere nella materia dei corpi, sarebbe simile a un argano che mantiene in tensione la corda man mano che i corpi si avvicinano. Per la gravità, la forza paragonata all’argano risiederebbe all’interno della Terra, e siamo così abituati a considerare la forza di gravità come localizzata internamente alla Terra, che l’analogia della corda e dell’argano descrive fedelmente il fenomeno della gravità.

Il concetto che abbiamo esaminato è però completamente sbagliato: la forza di attrazione non è intrinseca ai corpi né è una proprietà della materia, e quindi la gravità non risiede nella massa della Terra. Piuttosto, la forza è esterna e pervade tutto lo spazio, con gli aggregati di materia che ne determinano l’azione disturbando l’equilibrio tra spinte uguali e contrarie. Ora cercheremo di offrire una spiegazione meccanica dell’attrazione; nel frattempo, esploriamo il concetto di etere, a cui potrebbero forse essere attribuiti tutti i fenomeni dell’universo.

L’etere è definito dai fisici come un fluido ipotetico, estremamente rarefatto e perfettamente elastico, le cui vibrazioni sono ritenute responsabili delle radiazioni termiche e luminose (Enciclopedia Hoepli).

Il defunto generale Olivero ([N.d.A.] si tratta del tenente generale Enrico Olivero), in uno studio pubblicato nel Bollettino della Società Geologica Italiana (Vol. XII 1893), descrive l’etere come una “forza che riempie il cosmo, definita solo per la sua azione vibrante e ripulsiva sia verso se stessa sia verso la materia“.

Accettando questa azione ripulsiva, Olivero ipotizza che l’etere tenda ad aggregare la materia, ma ammette che è difficile spiegare come ciò avvenga. Confesso di non aver compreso appieno il pensiero dell’autore di quel documento, a cui rimando il lettore interessato; qui cercherò di riassumere le sue idee: poiché l’etere penetra anche all’interno della massa molecolare, non potrebbe aggregare, ovvero avvicinare una molecola all’altra, se agisse internamente con la stessa forza con cui opera esternamente. Ciò vale anche per due corpi che si attraggono; per manifestare ciò che chiamiamo attrazione, deve prevalere la spinta esterna.

La spiegazione è logica, ma mi sembra che Olivero non chiarisca come si verifichi la differenza di pressione tra quella interna, che tenderebbe a respingere e allontanare i corpi e le particelle che li compongono, e la pressione o le spinte esterne prevalenti che li avvicinano. Non è semplice spiegare questo fenomeno, e il modello proposto da Olivero non sembra del tutto corretto. Secondo lui, ogni particella di etere esercita una spinta e le varie spinte si sommano. Proprio come le molecole di un liquido contenuto in un recipiente, che tendono a sfuggire attraverso un’apertura posta in basso a causa della pressione esercitata dalla colonna di liquido sopra di loro, e dove la pressione di ogni molecola che può fuoriuscire si accumula, allo stesso modo, due corpi si attraggono meno man mano che aumenta la distanza tra di loro. La spinta esterna, contrastata dalla repulsione interna, agisce più o meno in modo inversamente proporzionale al contrasto che incontra e che la indebolisce, cioè in ragione inversamente proporzionale al quadrato della distanza. All’ipotesi della forza di attrazione inversamente proporzionale al quadrato delle distanze si contrappone così la forza repulsiva dell’etere tra gli astri, proporzionale direttamente al quadrato delle distanze.

Potrei non aver compreso pienamente il concetto di Olivero, ma anche ammettendo di aver afferrato il meccanismo delle spinte dell’etere che determinano la cosiddetta attrazione, le conclusioni di Olivero mi sembrano in disaccordo con la legge fondamentale secondo cui l’attrazione aumenta o diminuisce in maniera inversamente proporzionale al quadrato delle distanze. Infatti, secondo Olivero, l’attrazione dipenderebbe dalla differenza tra le spinte interne ed esterne. Tuttavia, se ho capito bene, egli suggerisce che queste forze, sommandosi, aumentino proporzionalmente con le distanze. Di conseguenza, due corpi che si attraggono avrebbero spinte esterne rappresentate da due lunghezze infinite, mentre la distanza che li separa, per quanto grande, è sempre finita e misurabile. Di conseguenza, dato che la differenza tra un numero qualunque e l’infinito è sempre infinita, i corpi dovrebbero attrarsi sempre con la stessa forza, indipendentemente dalla distanza che li separa, il che è chiaramente in contrasto con la realtà.

Inoltre, non è corretto paragonare l’etere a un fluido ponderabile, come un liquido in un recipiente, dove le molecole sono spinte a uscire da un foro tanto più intensamente quanto maggiore è la pressione della colonna liquida. Se tale analogia fosse valida, la pressione, ossia la spinta dell’etere, dovrebbe essere simile a quella dei liquidi, che si propaga uniformemente in tutte le direzioni e non spiegherebbe l’attrazione, dal momento che due corpi immersi in un liquido non si attraggono a causa della pressione uniforme.

È evidente che vi è una marcata differenza tra un fluido, un liquido o un gas e l’etere, e tale differenza risiede più che nella sottigliezza dell’etere, nella sua completa indipendenza dalle leggi della gravità e dell’attrazione, forze che, al contrario, derivano dall’etere stesso.

Consideriamo ora il carattere più distintivo dell’etere, evidenziato dalla trasparenza di alcuni materiali; se i raggi luminosi, che dipendono dalle vibrazioni dell’etere, passano attraverso corpi come il cristallo, significa che questi materiali, nonostante sembrino compatti, sono permeati dall’etere tra le loro molecole, permettendo così la propagazione delle vibrazioni luminose attraverso di essi.

Anche la trasparenza alla luce è relativa allo spessore del materiale; pochi centimetri o metri di un materiale molto trasparente possono impedire il passaggio della luce, mentre è plausibile che le vibrazioni dell’etere, nella loro forma più pura e non alterata da fenomeni termici o luminosi, possano propagarsi attraverso qualsiasi massa di materia, influenzando le proprietà fondamentali della materia stessa, come l’attrazione e la coesione. Questo era già stato ammesso da Newton ed è una conclusione inevitabile se si considera la materia come inerte.

Tanto un gas quanto l’etere sono formati da particelle estremamente piccole, con la differenza che quelle dell’etere sono completamente libere, non soggette né all’attrazione né alla gravità, a differenza di quelle del gas. Le particelle dell’etere, come abbiamo visto, penetrano liberamente all’interno dei corpi, tra molecole e atomi e persino all’interno degli atomi stessi, poiché è probabile che l’atomo non sia l’unità ultima di divisione della materia, ma sia composto da particelle ancora più piccole, strettamente legate.

Considerata l’esistenza di queste particelle ultra atomiche, l’ultima frontiera della divisibilità della materia, nonostante le grandi differenze tra materia ed etere, potremmo ipotizzare che nella loro essenza più intima, questi due elementi fondamentali dell’universo siano sostanzialmente identici; ma esploreremo questo concetto più avanti.

Le particelle dell’etere sono soggette a un continuo e rapidissimo movimento vibratorio. La velocità di propagazione di tali vibrazioni è sicuramente almeno pari a quella della luce, calcolata a circa 300.000 chilometri al secondo, e potrebbe essere persino maggiore, dato che si ritiene che l’elettricità sia ancora più veloce, come indicato dagli esperimenti di Wheatstone, che misurano circa 460.000 chilometri al secondo.

Non solo è stata misurata la velocità di queste vibrazioni, ma sono stati anche calcolati il numero e l’ampiezza delle stesse, che variano a seconda dei fenomeni, elettrici, luminosi, termici e così via. Le cifre che rappresentano la quantità di vibrazioni per ogni secondo sono così elevate che sfuggono alla nostra comprensione: ad esempio, le vibrazioni luminose sono rappresentate da numeri a 15 cifre. Le particelle dell’etere, non essendo soggette a fenomeni di attrazione e essendo perfettamente libere, si muovono in linee rette, interrotte solo quando incontrano altre particelle provenienti da direzioni diverse. Dopo l’impatto, riprendono nuove direzioni senza perdere l’energia cinetica iniziale.

Ogni particella d’etere possiede un impulso proprio, indipendente dalle altre. L’impatto con le particelle della materia è determinato dalla forza viva ([N.d.A.] la forza viva, o vis viva, è un concetto introdotto da Leibniz che è stato successivamente sostituito con quello di energia cinetica, cioè il semiprodotto della massa per il quadrato della velocità), ovvero dal prodotto della massa per il quadrato della velocità, secondo la formula mv² . Le particelle d’etere, date la loro estrema piccolezza, possono essere considerate come quasi infinitesimali; tuttavia, esse possiedono comunque una massa, per quanto piccola. Data l’enorme velocità di movimento di queste particelle, non inferiore a quella della luce, che è di trecento milioni di metri al secondo, e quindi il termine della formula è rappresentato da un numero che inizia con 9 seguito da 16 zeri, è comprensibile che mv², cioè l’energia cinetica di ogni particella, possa essere considerevolmente rilevante e che la somma di tutte queste infinite spinte possa spiegare l’attrazione e la coesione; ciò dimostra quanta energia sia contenuta in questo fluido universale. Si può immaginare che ogni particella d’etere sia come un raggio che si propaga in linea retta dall’infinito e che lo spazio sia intersecato da un numero infinito di questi raggi, provenienti da ogni punto dello spazio e in infinite direzioni. L’etere, che riempie completamente lo spazio fino ai suoi confini più remoti, è l’origine e il serbatoio inesauribile di tutte le forze, essendo l’unica vera forza dell’universo che si irradia costantemente in tutte le direzioni.

Avendo spiegato, per quanto possibile, la natura dell’etere, si comprende il significato della definizione di Olivero, che possiamo accettare: una forza vibrante che respinge se stessa e la materia.

Dopo aver premesso tutto ciò, esaminiamo se possiamo spiegare l’attrazione: Immaginiamo un piano nello spazio, rappresentato in sezione dal segmento AB della figura n.1 e supponiamo che tale piano sia completamente impermeabile alle vibrazioni dell’etere, in modo che queste non possano propagarsi attraverso di esso e le vibrazioni da un lato rimangano isolate da quelle dall’altro lato. Consideriamo le vibrazioni normali al piano, rappresentate dalle frecce a, b, c, d, e, f, g, h. Le particelle, cioè le irradiazioni eteree, colpendo il piano, genereranno infiniti impatti e quindi una pressione sia da un lato che dall’altro del piano, e poiché queste pressioni sono uguali e contrarie, si annullano reciprocamente e il piano ipotetico rimarrà immobile.

figura n.1 (http://www.cartesio-episteme.net/)

Ora immaginiamo che vicino e di fronte al piano AB, rappresentato nella figura n.2, ci sia un altro piano identico, CD, anch’esso impermeabile alle vibrazioni dell’etere. In questa situazione, le condizioni cambiano, perché i due piani non si trovano più in uno stato di equilibrio. In origine, il piano AB riceveva le spinte a, b, c, d equilibrate dalle spinte e, f, g, h. Ora, queste ultime saranno bloccate dal piano CD, lasciando il piano AB solo con le spinte da un lato. Allo stesso modo, il piano CD sarà privo delle spinte a, b, c, d che vengono bloccate dal piano AB. Di conseguenza, i due piani saranno spinti uno contro l’altro.

figura n.2 (http://www.cartesio-episteme.net/)

Abbiamo preso in considerazione solo le spinte perpendicolari ai piani, ma è evidente che anche le spinte oblique, con la loro risultante, raggiungono lo stesso effetto. Se i due piani fossero immersi in un liquido o gas sotto pressione, è chiaro che non verrebbero spinti l’uno contro l’altro, perché in questi ambienti le pressioni si diffondono uniformemente in tutte le direzioni. Questa ultima osservazione ci aiuta a comprendere la differenza tra i gas e l’etere.

L’etere, come abbiamo visto, è composto da particelle completamente libere e indipendenti, prive di legami attrattivi e definite solo alla loro energia cinetica. Con l’esempio ipotetico mostrato, il meccanismo dell’attrazione sembrerebbe molto semplice; tuttavia, i due piani ipotizzati non corrispondono alla realtà, dato che sappiamo che i corpi sono, al contrario, permeabili e trasparenti alle vibrazioni dell’etere.

I corpi sono infatti aggregati di molecole costituite da atomi che, a loro volta, si pensa siano composti da particelle elementari infinitesime. Tra questi elementi che formano i corpi, l’etere si muove liberamente, trasmettendo le proprie vibrazioni all’interno della massa e oltre, quasi come se il corpo non esistesse. Tuttavia, ciò non può valere in modo assoluto: l’aggregato di materia deve costituire una sorta di barriera, cioè offrire una resistenza alle vibrazioni dell’etere, e da questo nasce l’attrazione. La trasparenza si spiega con il fatto che sia le molecole che gli atomi permettono il passaggio delle vibrazioni, ma questo non vale per la particella elementare che, essendo indivisibile, non può essere attraversata dalle vibrazioni dell’etere.

Vediamo ora come si possa spiegare l’attrazione: immaginiamo un punto A nello spazio (vedi figura n.3) corrispondente alla particella elementare ultra atomica. Se lo spazio è pieno e percorso in ogni direzione dalle radiazioni rettilinee dell’etere, verso il punto A convergeranno vibrazioni da tutti i punti dello spazio, come i raggi di una sfera verso il suo centro. Prendiamo in considerazione il raggio dell’etere Ab. Si può immaginare che questo raggio, ovvero la particella vibrante, urti contro il punto A, il quale impedisce la sua propagazione oltre quel punto, proprio come un corpo opaco blocca i raggi luminosi, creando un’ombra nella direzione opposta. Di conseguenza, dal punto A verso b₁ lungo la linea tratteggiata, il raggio bA sarà bloccato; lo stesso accadrà per un altro raggio, cA, che non potrà propagarsi oltre verso c₁, e così via per tutti gli infiniti raggi convergenti verso il punto A.

figura n.3 (http://www.cartesio-episteme.net/)

Immaginiamo che il punto A rappresenti il centro di una sfera cava, la cui superficie interna sia uniformemente luminosa in ogni punto. Il centro della sfera sarà completamente illuminato, ma ogni raggio che raggiunge il punto A sarà bloccato, creando un’ombra dietro di esso. Tuttavia, questa ombra non si formerà perché la luce proveniente da tutti gli altri punti la eliminerà. In questo modo, intercettando tutti i raggi che convergono verso il punto A, si elimineranno anche tutti i raggi che divergono dallo stesso punto.

In queste condizioni la particella in A, essendo spinta in tutte le direzioni con forze uguali, rimarrebbe immobile. Questa situazione, che abbiamo descritto per la particella elementare, si applicherebbe a tutte le particelle elementari che compongono i corpi. Ora, consideriamo come interagiscono due di queste particelle elementari, A e A₁, quando si trovano vicine l’una all’altra (vedi figura n.4).

figura n.4 (http://www.cartesio-episteme.net/)

Ovviamente, l’equilibrio delle forze che agiscono su ciascuna delle due particelle sarebbe interrotto. Come nell’esempio dei due piani precedentemente descritto, il raggio bA, che segue la linea tra i due punti, non sarà bilanciato da un raggio opposto, poiché quest’ultimo sarà bloccato dalla particella A₁. Analogamente, per il raggio b₁A1 mancherà la contropressione proveniente da A.

Senza questo equilibrio, le due particelle saranno spinte l’una verso l’altra, come se non esistessero tutte le altre forze contrarie che agiscono su di loro. Così si genererebbe la forza comunemente chiamata “attrazione”, un termine in realtà non del tutto appropriato, perché suggerisce che sia una forza intrinseca alla materia che attrae altra materia verso di sé. In realtà, come vediamo, la materia è completamente passiva, essendo la spinta di origine esterna. [Nota: Mentre stavo completando questo studio, ho visto citata da Despaux (Causes des Energies attractives – Paris, 1902) un’ipotesi di Lesage che suggerisce l’esistenza di un bombardamento di corpuscoli ultra mondani. Non conoscendo questa ipotesi, non posso dire se vi siano somiglianze con quella da me proposta.]

Analogamente alle due particelle considerate, è facile immaginare le relazioni tra tre, quattro o più particelle. Ognuna di queste sarà in relazione con le altre nello stesso modo della coppia descritta e, indipendentemente dal fatto che le particelle in questione siano mille o persino infinite, non ci sarà alcun esaurimento dell’energia attrattiva che le spinge verso quella singola particella considerata, dato che si tratta di un’energia esterna rappresentata da raggi eterei, tutti uguali e orientati verso lo stesso scopo.

Per controllare se la nostra ipotesi possa offrire una spiegazione valida e accettabile dell’attrazione, verifichiamo che essa non contraddica le leggi fondamentali dell’attrazione stessa. Ecco la prima legge:

L’attrazione di un corpo su un altro non dipende dalla massa del corpo attratto, ma è la stessa per qualsiasi corpo, a patto che le distanze siano uguali.

Ad esempio, se Giove si trova alla stessa distanza dal Sole e dalla Terra, nonostante la massa del Sole sia trecentomila volte quella della Terra, l’attrazione di Giove sul Sole è esattamente la stessa di quella sulla Terra, facendo muovere entrambi di uno stesso numero di centimetri e frazioni di centimetro al secondo. Questa legge si applica anche alla gravità, dato che sappiamo già che i corpi, pesanti o leggeri, cadono alla stessa velocità nel vuoto.

Vediamo ora come possiamo spiegare questa legge, concentrandoci sul caso specifico del peso. La differenza nel peso specifico dei corpi deriva dalla maggiore o minore densità della materia all’interno dello stesso volume. Ad esempio, un corpo solido o liquido che si trasforma in gas diventa circa mille volte più voluminoso, ma mantiene il medesimo peso, in quanto il numero di particelle resta invariato tra i due stati; la sola differenza è che, nello stato gassoso, le particelle, ossia le molecole, sono molto più distanziate. Questo principio vale per i cambiamenti di stato, ma dobbiamo anche considerare due corpi di diversa natura chimica e con differente peso atomico.

Come abbiamo già osservato, si presume che gli atomi siano formati da particelle elementari infinitesimali, identiche per tutte le sostanze e legate indissolubilmente per costituire gli atomi. Questo si allinea al concetto cartesiano della materia. La diversa disposizione, il diverso numero e il diverso modo di vibrare di queste particelle elementari all’interno dell’atomo determinano le caratteristiche varie dei diversi elementi chimici.

Ogni particella elementare rappresenterebbe un’unità di attrazione e, in particolare nel contesto della gravità, un’unità di peso. Pertanto, queste particelle, tutte spinte con la stessa forza verso la Terra, avrebbero lo stesso peso, e la variazione nel loro numero, ossia il grado di densità, determinerebbe la diversa densità delle varie sostanze.

Assumendo che queste particelle elementari abbiano lo stesso peso, si può facilmente spiegare come un corpo centrale che attrae eserciti la stessa forza di attrazione e quindi lo stesso effetto sulla velocità per secondo, a distanze uguali, su una particella o su molte, sia che queste siano separate o raggruppate per formare un corpo, sia che siano sparse per formare un corpo a basso peso specifico o concentrate per formarne uno ad alto peso specifico. Nel nostro caso, ogni particella elementare rappresenta una unità di resistenza per l’ostacolo che essa pone alla trasmissione delle onde dell’etere, nella direzione del corpo che attrae. Questo corrisponde all’unità di peso e all’unità di attrazione.

È importante chiarire cosa si intende con “attrarre” e “essere attratto”. Nell’idea comune di attrazione, un corpo attrae un altro mediante una forza o virtù che proviene dal corpo attrattivo; tuttavia, la realtà è diversa. La particella a nella figura n.5 attrae la particella b a causa della spinta che quest’ultima riceve dall’esterno. Così la forza che avvicina b ad a risiede o si manifesta nella particella attratta, mentre la particella a, contrariamente al concetto empirico di attrazione, rimane in un certo senso inerte, sebbene l’effetto sia di fatto reciproco.

figura n.5 (http://www.cartesio-episteme.net/)

Un corpo che cade verso la Terra, apparentemente attratto dalla forza di gravità, è in realtà spinto da una forza esterna, generata dalla presenza della Terra stessa. Questa forza esterna deriva dal fatto che la Terra intercetta i raggi dell’etere, che altrimenti equilibrerebbero i raggi agendo sull’esterno del corpo attratto.

Con questo chiarimento, ritorniamo alla prima legge dell’attrazione, che a questo punto sembra non richiedere ulteriori dimostrazioni. Immaginiamo un corpo, rappresentato nella figura n.6 come corpo a, composto da 100 particelle. Questo corpo è posto alla stessa distanza da un altro corpo b, che è composto da 10 particelle, e da un terzo corpo c con 20 particelle.

figura n.6 (http://www.cartesio-episteme.net/)

Ogni particella di b è in relazione con ognuna delle 100 particelle che compongono il corpo a, secondo i rapporti già descritti precedentemente, e quindi ogni particella delle 10 che compongono il corpo b riceverà 100 spinte esterne. Di conseguenza, il corpo b riceverà complessivamente 10×100=1000 spinte che lo spingeranno verso a. Analogamente, ognuna delle 20 particelle che compongono c riceverà 100 spinte, per un totale di 20×100=2000 spinte che lo avvicineranno ad a. Quindi un corpo con il doppio delle particelle, ossia con una massa doppia rispetto a un altro, sarà spinto con il doppio della forza, producendo lo stesso effetto su entrambi i corpi.

Ecco ora la seconda legge:

L’attrazione è proporzionale alla massa del corpo attraente, purché le distanze tra i corpi attratti siano uguali.

Dopo aver spiegato la prima legge, questa seconda legge risulta quasi ovvia. Considerando sempre la figura n.6, consideriamo i due corpi b e c che attraggono il corpo a, posto equidistantemente da entrambi. Ogni particella delle cento che compongono il corpo a riceverà 10 spinte dalla direzione di b, quindi a sarà spinto verso b con una forza totale di 100×10=1000. Invece dalla direzione di c ogni particella di a riceverà 20 spinte, quindi a sarà spinto verso c con una forza totale di 100×20=2000, ovvero il doppio della forza esercitata da c che ha il doppio delle particelle, cioè una massa doppia rispetto a b. Così l’attrazione risulta proporzionale alla massa del corpo attraente.

Abbiamo infine la terza legge:

L’intensità dell’attrazione varia in modo inversamente proporzionale al quadrato delle distanze.

Questo principio, valido per la luce e il calore irradiati, che si propagano sfericamente e coprono aree proporzionali al quadrato delle distanze, è generalmente accettato senza necessità di dimostrazione. Affinché questa legge valga anche per l’attrazione, dobbiamo presupporre che il corpo attraente funzioni come un punto matematico, un’assunzione pratica comune per gli astri, considerando la grande distanza a cui si trovano. Anche in questo caso, per dimostrare l’applicabilità di questa legge, partiamo dall’ipotesi che il punto dotato di capacità attrattiva sia una particella elementare, che facendo da schermo alle radiazioni eteree, determina le contropressioni, ossia l’attrazione. Si tratta quindi, anche in questo contesto, di un’influenza che irradia da una particella elementare, ossia da un punto, e non può, di conseguenza, sfuggire alla legge generale. Ciò che è valido per una particella attraente è valido per tutte le altre e rimane valido anche per grandi aggregati di materia, supponendo che siano di forma sferica, costituiti da strati omogenei e considerati a grande distanza rispetto al loro volume. Pertanto, le leggi fondamentali dell’attrazione si applicano perfettamente alla nostra ipotesi.

Attrazione, coesione e affinità

Nel cercare di spiegare la forza di attrazione, abbiamo ipotizzato l’esistenza di una particella elementare, considerata il limite estremo nella divisione della materia. È sempre la stessa forza di attrazione che lega le particelle elementari a formare gli atomi, che lega gli atomi a formare le molecole e infine che lega le molecole a costituire i corpi solidi. Quando questa forza unisce le molecole tra loro, la chiamiamo coesione, e quando unisce atomi di diversa natura per formare composti chimici, la chiamiamo affinità chimica.

È indubbio che si tratti sempre della stessa forza, anche se l’energia che tiene unita la materia dei corpi è molto diversa dalla debole attrazione che tende a unire due corpi distanti. Grandi masse di materia, come una montagna, possono deviare un filo a piombo; se la massa è grande come quella della Terra, la forza di attrazione diventa significativamente evidente.

Tuttavia, queste sono niente in confronto alla enorme forza che mantiene uniti i corpi, e per sviluppare una forza così energica non è necessaria una grande massa di materia, poiché la coesione è completamente indipendente da essa. Per rompere un filo di ferro con una sezione di un millimetro quadrato, occorre un peso di 60 chili, e 120 chili se il filo è di acciaio. Quindi, le molecole che occupano un millimetro quadrato richiedono uno sforzo di 60 e 120 chilogrammi per essere separate. Eppure, questo è poco se pensiamo al lavoro necessario per separare gli atomi che compongono una molecola. In questo caso, i metodi meccanici non sono sufficienti e sono necessarie reazioni chimiche che modificano la struttura intima dei corpi. Durante tali reazioni, che richiedono grandi quantità di energia, gli atomi si liberano dai loro legami e spesso si riorganizzano in modi diversi con atomi di altre nature per formare nuove molecole. Consideriamo poi la forza che lega in modo indissolubile le particelle elementari che formano gli atomi. Nemmeno le forze meccaniche o chimiche più potenti possono rompere tali legami.

Abbiamo quindi quattro livelli di questa forza di attrazione: l’attrazione attraverso il corpo, nota come gravitazione universale e anche come gravità; l’attrazione molecolare; l’attrazione atomica; e l’attrazione ultraatomica, ovvero quella che unisce le particelle elementari.

Un esempio ci aiuterà a comprendere meglio che si tratta sempre della stessa forza. Prendiamo due lastre, una di metallo e una di vetro, e appoggiamole l’una contro l’altra. Saranno facilmente separabili se le superfici di contatto sono ruvide. Se invece le superfici sono ben levigate e combaciano perfettamente, aderiranno in modo tale da richiedere uno sforzo notevole per essere separate; quanto più perfettamente levigate, tanto maggiore sarà lo sforzo necessario, tanto da sembrare quasi un unico corpo. La forza che tiene uniti in questo modo i due piani si chiama adesione e non è dovuta alla pressione atmosferica, poiché si manifesta anche nel vuoto.

Per comprendere questo semplice esperimento è essenziale ricordare la spiegazione che abbiamo fornito sulla forza di attrazione e sul modo in cui essa si manifesta tra le particelle. Due corpi qualsiasi, come due piani con superficie ruvida e senza considerare la gravità, cioè senza il peso che fa premere il piano superiore su quello inferiore, si attraggono con una forza trascurabile. Questo succede perché, escludendo i pochi punti di contatto, le particelle di una superficie sono molto lontane da quelle dell’altra, specialmente se si considera l’estrema piccolezza delle particelle stesse e le distanze infinitesimali che le separano. È importante considerare attentamente questo aspetto, tenendo a mente la legge fondamentale dell’attrazione, che varia in modo inversamente proporzionale al quadrato delle distanze.

Levigando i due piani, si aumentano i punti di contatto e si riduce effettivamente la distanza media tra le particelle dei due piani, il che incrementa di conseguenza l’attrazione. Si può capire come, teoricamente, i due piani possano essere levigati così perfettamente che le particelle arrivino a trovarsi in condizioni tali da realizzare la vera coesione che tiene unite le molecole; in tali condizioni i due piani formerebbero un unico corpo. Naturalmente, nella pratica si è ben lontani dal raggiungere tale risultato.

Dopo questa spiegazione, per avere un’idea della forza di coesione, prendiamo come riferimento il coefficiente di rottura del filo di acciaio che, come abbiamo visto, è di 120 chilogrammi per millimetro quadrato e ipotizziamo che la distanza che separa una molecola dall’altra nell’acciaio sia di un decimilionesimo di millimetro. Questa distanza, benché impercettibile, è comunque enorme rispetto alla distanza che abbiamo ipotizzato tra le molecole all’interno della massa del corpo, essendo mille volte maggiore. Se ipotizziamo tra i due piani una distanza mille volte maggiore, la forza attrattiva che si svilupperebbe sarà un milione di volte minore di quella che mantiene unite le molecole all’interno della massa dell’acciaio. Con tale rapporto, partendo da un coefficiente di 120 chilogrammi per millimetro quadrato, la forza che trattiene i due piani sarà di circa 120 milligrammi per ogni millimetro quadrato, e così due piani di 10 cm di lato, ovvero 10000 millimetri quadrati, richiederanno una forza di 1200 chilogrammi per essere separati l’uno dall’altro.

Questi numeri, pur essendo solo un esempio, ci aiutano a capire come l’attrazione tra corpo e corpo e la forza che tiene unite le molecole derivino dalla stessa causa. Gli atomi che compongono la molecola, essendo ancora più vicini, sono trattenuti più saldamente, e lo stesso vale per le particelle elementari che compongono gli atomi stessi. La forza che le tiene aggruppate, aumentando secondo la nota legge, è tale da resistere a tutte le forze fisiche e chimiche. La forza, quindi, è unica e varia solo in intensità, a seconda della distanza che separa le particelle.

Energia dell’etere ed energia latente nella materia

Nei capitoli precedenti abbiamo cercato di definire l’etere e di descrivere come influisce sulla materia. Questo fluido (ipotetico) è il deposito di tutta l’energia dell’universo, un’energia che si potrebbe definire realmente infinita, come lo sono gli spazi stessi. L’etere rappresenta l’energia nella sua forma più semplice e originaria, mentre tutte le altre forme di energia, come la luce, l’elettricità e il calore, sono soltanto derivazioni o prodotti secondari, causati dai movimenti della materia.

La formula mv², considerando l’immensa velocità di vibrazione dell’etere, ci offre, se non una misura precisa, almeno un’idea dell’immensa forza che rappresenta. Tuttavia, anche la materia deve essere vista come una forza, dato che è in continuo e rapidissimo movimento. Infatti non vi è dubbio che le particelle di materia siano impedite di collidere perfettamente tra loro a causa dell’etere, che le mantiene in costante vibrazione attorno al loro punto di equilibrio. Questo movimento rapidissimo è una necessità, sia per le particelle ultra atomiche sia per gli atomi sia per le molecole.

Quindi, quando diciamo che la materia è inerte, non intendiamo che sia inattiva; il termine “inerte” descrive piuttosto il ruolo passivo della materia rispetto all’attività dell’etere. La materia, infatti, risponde all’azione dell’etere, ne sfrutta e immagazzina l’energia, simile al volano di una macchina a vapore ([N.d.A.] il volano è un elemento che ha tipicamente la forma di un disco e serve per stabilizzare la velocità angolare dell’albero motore, limitando le variazioni di energia nelle macchine cicliche) che si muove per l’impulso del vapore e immagazzina energia sotto forma di forza viva ([N.d.A.] oggi diremmo di energia cinetica).

Se consideriamo che l’intera struttura interna di un corpo è animata da movimenti infinitesimali ma estremamente rapidi, simili forse a quelli dell’etere, e che nessuna particella ne è esente, potremmo concludere che la materia di qualsiasi corpo contiene in sé una quantità di energia rappresentata dalla massa totale del corpo, che si muove unita e compatta nello spazio alla stessa velocità delle singole particelle.

Tuttavia, questa deduzione ci porta a conseguenze sorprendenti e incredibili. Un chilogrammo di materia, se lanciato alla velocità della luce, rappresenterebbe una quantità di energia così grande da essere inconcepibile. La formula mv² calcola la forza viva ([N.d.A.] l’energia cinetica), mentre la formula (mv²)/8338 esprime tale energia in calorie.

Quindi, se assumiamo m=1 e v pari a 300000 chilometri al secondo, cioè 300 milioni di metri al secondo (la velocità della luce, considerata valida anche per l’etere) otteniamo una quantità di energia espressa in calorie rappresentata dal numero 10794 seguito da nove zeri, ovvero più di dieci milioni di milioni.

A quale stupefacente risultato ci ha portato il nostro ragionamento? Difficilmente qualcuno potrebbe accettare che, immagazzinata e in stato latente, in un chilogrammo di qualunque tipo di materia, completamente celata a ogni nostra indagine, si nasconda una tale quantità di energia, paragonabile a quella che potrebbe essere generata da milioni e milioni di chilogrammi di carbone; un’idea del genere verrebbe probabilmente considerata follia.

In realtà, se è indiscutibile che tutte le particelle di materia siano in movimento, non è necessario supporre che vibrino alla stessa velocità dell’etere libero; inoltre, data la natura del fenomeno, non è completamente corretto paragonare l’energia latente all’energia rappresentata dalla stessa quantità di materia che si muove compatta nello spazio alla stessa velocità.

Comunque, anche riducendo significativamente il risultato ottenuto dal nostro calcolo, è inevitabile ammettere che all’interno della materia si trova immagazzinata un’energia tale da stupire chiunque. Che cosa è, in confronto, l’energia che si può ottenere dai combustibili più ricchi e dalle reazioni chimiche più energiche? Già ci appare sorprendente un combustibile che sviluppi otto o diecimila calorie per chilogrammo, e difficilmente possiamo immaginare che questo stesso combustibile, anche dopo essere stato bruciato, contenga ancora, nelle sue scorie, ceneri e gas di combustione, un’ulteriore quantità di energia in stato latente. Dopotutto, però, perché dovremmo porre un limite all’energia di cui la materia è dotata e che rimarrà per noi sempre celata? Non è forse un’energia infinita, come sono infiniti gli spazi in cui si disperde?

La velocità con cui la corrente elettrica si propaga lungo un filo sembra superare quella della luce, eppure, una corrente elettrica appena percettibile si propaga per lunghe distanze quasi senza perdita. In tale propagazione, interviene l’etere presente nella materia del filo, ma partecipa indubbiamente anche tutta la materia del filo stesso. Se questo avviene con un consumo di energia trascurabile, significa che la materia del filo è già in uno stato di vibrazione naturale e costante e che la corrente elettrica influisce solo lievemente su queste vibrazioni, assorbendo una quantità di energia minima. Questo stato di perenne vibrazione in cui si trovano le particelle del metallo, e di cui abbiamo chiara evidenza, dimostra che rappresentano un’enorme quantità di energia latente.

La proprietà dei metalli di essere buoni conduttori potrebbe dipendere da una sorta di armonia tra le vibrazioni dell’etere interposto alla materia del filo e quelle delle particelle materiali del filo stesso, in modo tale che non si verifichino urti o perdite nello scambio delle vibrazioni elettriche.

Altri effetti delle vibrazioni dell’etere

Abbiamo visto come l’ipotesi dell’etere possa spiegare l’attrazione e la coesione, ora esaminiamo quali altre conseguenze possiamo trarne.

La materia, come abbiamo già menzionato, può essere considerata perfettamente trasparente alle vibrazioni dell’etere. Infatti, se la materia è inerte, le sue proprietà devono derivare da un’influenza esterna. Dato che tali proprietà persistono anche all’interno degli aggregati materiali, è evidente che l’agente responsabile di queste proprietà può propagare la sua azione liberamente, senza alcun ostacolo, attraverso qualsiasi quantità di materia; questo concetto è stato già accennato in precedenza.

Pertanto possiamo immaginare che la materia, anche nei corpi che ci appaiono più compatti, sia piuttosto distanziata, con particelle separate da distanze relativamente grandi rispetto alla loro dimensione minima, e che gli spazi tra di esse siano occupati dall’etere vibrante. Questo etere, interposto e in contatto intimo con tutta la materia e in libera comunicazione con l’esterno, trasmette alla materia stessa le vibrazioni e, con esse, le proprietà che la caratterizzano.

La forza che agisce su due particelle poste di fronte, usata per spiegare l’origine dell’attrazione, tenderebbe a farle collidere. Se ciò fosse possibile, niente impedirebbe che tutta la materia si aggregasse in un unico blocco immobile. Tuttavia, come abbiamo già spiegato, ciò non può accadere perché l’etere, mentre tende ad avvicinare le particelle, le mantiene anche in un’oscillazione incessante, impedendo loro di raggiungere uno stato di equilibrio e quiete.

La materia, quindi, deve partecipare entro certi limiti a tutte le vibrazioni dell’etere, che possono propagarsi non solo negli spazi intermolecolari, ma anche tra etere e materia e viceversa. È importante ribadirlo, perché aiuta a comprendere meglio il fenomeno della trasparenza. Questa trasmissione di vibrazioni dall’etere alla materia e questo passaggio e scambio continuo di energia, si verificano con varie perdite dovute agli urti e agli attriti.

Abbiamo paragonato la materia al volano di una macchina a vapore che, ruotando rapidamente, immagazzina una notevole quantità di energia cinetica. Tuttavia, se il volano non fosse costantemente alimentato dalla spinta della manovella ([N.d.A.] il termine manovella si riferisce al sistema biella-manovella, che converte il moto rettilineo alternato in moto circolare e viceversa), perderebbe rapidamente l’energia accumulata a causa dell’attrito nei perni e della resistenza dell’aria. Perciò, il paragone della materia con il volano è molto accurato.

Nei suoi rapidi movimenti vibratori, la materia rappresenta grandi quantità di energia cinetica, ma tali movimenti possono persistere solo finché sono sostenuti e contenuti dall’etere: anche in questo caso, deve verificarsi una perdita di energia paragonabile all’energia assorbita dall’attrito dei perni del volano. A che cosa si oppone l’attrito dei perni? In che forma si trasforma l’energia accumulata nel volano? Si converte in calore, il quale diventa evidente se trascuriamo la lubrificazione dei perni.

Si può quindi ipotizzare che lo stesso accada per l’energia assorbita negli attriti tra materia ed etere, che dovrebbe trasformarsi in calore. Questa conclusione sarebbe di straordinaria importanza, poiché potrebbe offrire probabilmente la chiave per spiegare fenomeni finora incomprensibili. Il movimento delle particelle di materia rappresenta un meccanismo così raffinato e perfetto che è difficile credere possa verificarsi una significativa perdita di energia. Piuttosto, è plausibile pensare che solo una minima parte dell’enorme quantità di energia coinvolta nei movimenti interni dei corpi sia assorbita dagli attriti. Non è necessario ipotizzare che l’energia assorbita dall’etere si converta esclusivamente in calore; potrebbero verificarsi anche altri fenomeni ancora sconosciuti.

La proprietà dell’Uranio e dei suoi composti di emettere costantemente radiazioni particolari potrebbe supportare questa teoria. Analogamente, il Torio e i suoi composti non solo emettono i cosiddetti raggi uranici, ma hanno anche la caratteristica di rilasciare particelle radioattive, capaci di attraversare fogli sottili e carta. Tali fenomeni distintivi di poche sostanze potrebbero dipendere dalla causa sopra menzionata, e non è escluso che ulteriori studi possano rivelare fenomeni simili o diversi in altre sostanze, forse con ogni sostanza capace di emettere radiazioni specifiche o particolari emissioni di energia. In ogni caso, se questi fenomeni sono attribuibili alla causa indicata, dovrebbero essere considerati secondari, mentre il calore generato dagli attriti sembra essere l’effetto più diretto. Difficilmente qualcuno potrebbe immaginare, e non è facile dimostrarlo praticamente, che un corpo di piccole dimensioni possa contenere internamente una fonte di calore, anche minima, completamente indipendente dalle usuali cause e sorgenti.

Tuttavia, se tale fenomeno esiste, la situazione cambia radicalmente quando si considerano masse di materia di grandi dimensioni. L’aumento progressivo della temperatura osservato in profondità all’interno di una montagna, tradizionalmente spiegato con la teoria del fuoco centrale, potrebbe essere causato da una fonte esterna, legata alle resistenze che la materia oppone alle vibrazioni dell’etere. Non voglio negare l’alta temperatura del nucleo terrestre, ma dato lo sviluppo di calore risultante dall’attrito tra la materia e l’etere e considerata l’enorme massa rappresentata dal globo terrestre, è evidente che tale calore deve essere considerato significativo. Di conseguenza, l’aumento di temperatura riscontrabile con la profondità dovrebbe avvenire, almeno in parte, anche indipendentemente dal calore centrale. Inoltre, ammettendo tale fonte di calore e ipotizzando che questa sia l’unica responsabile delle attuali condizioni terrestri, il calore centrale risulterebbe una conseguenza inevitabile. Il calore generato dall’esterno si accumulerebbe nel tempo al centro del pianeta, dove converge da tutte le parti senza possibilità di dispersione, con un effetto notevole anche se il calore generato fosse limitato. La fonte di calore non è quindi esterna; le vibrazioni provengono dall’esterno, ma l’effetto calorico si verifica in tutta la massa del pianeta, incluso il suo centro. Pertanto, la temperatura centrale potrebbe essere vista come il risultato dell’accumulo, nel corso di molto tempo, dell’energia proveniente dall’esterno.

Questo senza escludere che il calore centrale terrestre possa derivare, almeno in parte, da una causa più remota, ossia come residuo di un periodo in cui la Terra era liquida o gassosa. Tuttavia, è essenziale comprendere l’influenza che la grandezza della massa materiale ha sullo sviluppo del calore.

Potremmo considerare che ogni particella di materia sia associata a una certa quantità di calore generato, proprio come effetto di una resistenza alla libera diffusione delle onde di etere. Di conseguenza, il calore prodotto dai corpi aumenterebbe proporzionalmente al numero di particelle, e quindi alla massa del corpo stesso. È evidente che la densità del materiale influenzerà significativamente questo fenomeno. In particolare, l’effetto calorifico nei corpi gassosi è minimo, mentre nei liquidi e nei solidi è massimo.

È importante considerare anche altri fattori: in una sfera il cui diametro sia il doppio di un’altra, le vibrazioni devono percorrere una distanza doppia, risultando così più “filtrate” dalla materia e emergendo dalla sfera con una energia residua minore. L’area superficiale di una sfera aumenta proporzionalmente al quadrato del suo raggio, quindi una sfera con il raggio doppio avrà una superficie esposta all’azione dell’etere quattro volte maggiore.

Un altro aspetto fondamentale da considerare è che i raggi dell’etere penetrano liberamente nei materiali, indipendentemente dalla loro dimensione. La trasformazione in calore di una parte dell’energia esterna avviene localmente e questo calore tende ad accumularsi verso il centro. Questo perché, una volta convertita in calore, l’energia perde la capacità di diffondersi attraverso la materia per irradiazione e si propaga solo tramite conduzione, molto più lentamente. In questo modo, l’energia cinetica trasformata in calore a causa degli attriti rimane quasi imprigionata all’interno del materiale, facendo sì che il calore si accumuli verso il centro, raggiungendo temperature elevate. Ovviamente, più grande è la massa del materiale, più lungo sarà il percorso che il calore dovrà compiere per conduzione prima di raggiungere l’esterno e minore sarà la perdita di calore durante questo tragitto. Capire l’effetto della grandezza della massa materiale ci aiuta a comprendere come almeno parte del calore terrestre potrebbe essere attribuita a questo meccanismo.

Come detto, questa teoria non esclude che il calore originario del pianeta possa avere altre cause. Questa ipotesi potrebbe spiegare sia l’origine del calore terrestre, anche ammettendo che la Terra fosse originariamente fredda, sia la conservazione del calore attuale, considerando che potrebbe derivare da altre fonti.

Del calore solare

Spiegato come possa avere origine il calore interno del nostro pianeta, è semplice estendere l’analisi al calore solare: basta fare un confronto tra le dimensioni del Sole e quelle della Terra. Il Sole ha un diametro di 1382000 chilometri, circa 108 volte quello della Terra, il che significa che è abbastanza grande da racchiudere quasi due volte il diametro dell’orbita lunare attorno alla Terra. Il volume del Sole è 1280000 volte quello terrestre e, considerando che la sua densità è circa un quarto di quella della Terra, rappresenta all’incirca 324000 volte la massa terrestre.

Il Sole è estremamente incandescente, probabilmente raggiungendo una temperatura di diversi milioni di gradi, e il calore che emette è così intenso che, se fosse al posto della Luna, fonderebbe il nostro globo come fosse cera (C. A. Young: Il Sole). È stato calcolato che, se il Sole fosse un solido di carbone che brucia ossigeno, potrebbe sostenere l’attuale emissione di calore solo per circa seimila anni; nonostante tale enorme dispersione di calore, è certo che la sua temperatura non abbia subito variazioni apprezzabili dall’inizio della storia umana.

La geologia ci porta però a epoche molto più remote, forse di milioni di anni, e ci suggerisce che, se c’è stato un raffreddamento, questo deve essere stato estremamente graduale, forse appena percettibile nell’arco di un’intera era geologica. Non è plausibile supporre che sia semplicemente un enorme globo incandescente in lento raffreddamento. Da dove proviene, dunque, così tanta energia? Senza dubbio, deve esistere una causa che permetta al Sole di rigenerare tutta o parte dell’energia che disperde così generosamente.

Ora esaminerò le principali teorie proposte per spiegare l’origine dell’energia solare, iniziando dall’ipotesi Meteorica di Mayer. Un corpo nello spazio, privo di velocità iniziale e situato a grande distanza dal Sole, cadendo su di esso, raggiungerebbe, nell’ultimo istante, una velocità di 616 chilometri al secondo. L’urto trasformerebbe istantaneamente tutta l’energia cinetica acquisita in calore e, usando la formula (mv²)/8338, si può calcolare che un corpo di un chilogrammo, cadendo sul Sole a tale velocità, genererebbe circa 45 milioni di calorie. Nessun combustibile, nemmeno il più efficace bruciando nelle condizioni ottimali, potrebbe sviluppare una quantità di calorie nemmeno lontanamente comparabile. Partendo dal principio secondo il quale sul Sole possa avvenire una continua pioggia di materiale meteorico, sufficiente a rifornirlo del calore che perde per irradiazione, si ipotizza che questo meccanismo sia molto più intenso rispetto a quanto avviene sulla Terra, data l’enorme massa del Sole che influenza fortemente anche zone che si trovano oltre i limiti nostro sistema. Questa teoria sembra inizialmente plausibile ed è stata un tempo molto accreditata.

Tuttavia, considerando che la superficie del Sole emette costantemente una quantità di calore pari a 18500 calorie per secondo per metro quadrato, calcolando la quantità di calore generata dalla caduta di un chilogrammo (circa 45 milioni di calorie), si deduce che sarebbero necessari circa 0,4 grammi di materia al secondo per metro quadrato, ovvero circa 12600 chilogrammi per metro quadro all’anno, per mantenere il calore solare. In realtà, un simile accumulo di massa avrebbe un impatto relativamente piccolo, soltanto un ventiseimilionesimo per anno, eppure potrebbe causare perturbazioni significative nel nostro sistema nel corso di millenni, perturbazioni che però sono escluse dai dati che abbiamo ottenuto nei secoli. Si ritiene anche che, se la materia nello spazio fosse così abbondante, la Terra dovrebbe essere esposta a quantità molto maggiori, tanto da poter elevare la temperatura superficiale oltre quella dell’acqua bollente, secondo Young.

L’ipotesi più accreditata rimane quella della concentrazione solare proposta da Helmholtz, che suggerisce che la contrazione del Sole generi una quantità di calore proporzionale alla diminuzione del suo diametro. Helmholtz ha ipotizzato che una contrazione del diametro solare di soli 75 metri all’anno sarebbe sufficiente a compensare il calore perduto. Questo processo di contrazione è molto lento e impercettibile, poiché richiederebbe circa 9500 anni per raggiungere una contrazione di 724 chilometri, pari a un secondo d’arco del diametro apparente del Sole.

Young nel suo libro “Il Sole” spiega che se il Sole fosse completamente gassoso, la sua temperatura dovrebbe aumentare continuamente man mano che si contrae a causa della perdita di calore. Questo processo porta la massa gassosa a diventare più piccola e più calda fino a quando la densità non diventa così elevata da iniziare la condensazione in liquido. Tuttavia, non è certo che il Sole sia completamente gassoso e la sua fotosfera sembra essere composta da uno strato di materia condensata derivata dai vapori della massa principale, il cui processo di contrazione potrebbe aumentare ulteriormente questo strato e l’intensità della nube.

Secondo Newcomb, se il Sole continuasse a mantenere la sua attuale emissione di radiazioni, in circa 5 milioni di anni il suo diametro si ridurrebbe a metà, rendendolo otto volte più denso.

Dato che la densità media del Sole è quasi una volta e mezza quella dell’acqua, è ragionevole dubitare che sia interamente gassoso. Presumendo che l’intera massa solare sia omogenea, senza differenze tra il centro e la superficie e con una densità media di 1,40 rispetto all’acqua distillata, sembrerebbe inutile cercare di determinare lo stato fisico preciso del globo solare. Anche se in condizioni speciali la massa, pur essendo densa, fosse in uno stato simile a quello gassoso a causa della forte compressione, questo gas speciale avrebbe le molecole così vicine da raggiungere una densità superiore a quella dell’acqua, suggerendo che sia probabilmente una sostanza non ulteriormente comprimibile. Questo indica che l’energia sviluppata dovrebbe derivare da un graduale addensamento con una significativa diminuzione di volume. Non è realistico presumere una densità media costante per tutto il Sole; esternamente è certamente più gassoso e meno denso della media, mentre verso il centro, a causa dell’elevata pressione, la densità è molto più alta, portando a concludere che nella sua parte centrale il Sole possa essere già in stato liquido.

Per queste ragioni, l’ipotesi che limita il fenomeno della contrazione solare solo alla parte esterna, chiaramente gassosa, sembra perdere molto del suo valore, considerando che il nucleo, essendo troppo denso e probabilmente liquido, non partecipa a questo processo. In questo scenario, l’effetto utile della contrazione, dato il limitato coinvolgimento della massa solare, sarebbe minimo. L’ipotesi, seppur valida, non spiegherebbe adeguatamente la quantità di calore irradiato dal Sole. Non sembra plausibile che il fenomeno di contrazione possa continuare fino a quando il Sole raggiunga una densità otto volte maggiore e metà del suo diametro attuale. In sintesi, si può concludere che l’effetto della concentrazione solare sia, nella migliore delle ipotesi, lontano dal compensare completamente l’energia perduta.

Molti astronomi, tra cui Padre Secchi, ritengono che la costanza della temperatura solare possa essere attribuita principalmente a reazioni chimiche tra gli elementi che compongono il Sole. A temperature estremamente alte, alcuni composti possono esistere solo in uno stato di dissociazione, dove elementi con forte affinità chimica coesistono senza combinarsi. Quando la temperatura si abbassa abbastanza, questi elementi possono combinarsi liberando un significativo calore. In questo stato di dissociazione predominante, gli elementi del Sole contengono una grande quantità di energia latente, pronta a essere liberata con il raffreddamento. L’idrogeno, abbondante negli strati esterni del Sole, reagendo con l’ossigeno produce 3830 calorie per ogni chilogrammo d’acqua formata, dimostrando la notevole riserva energetica del Sole.

È chiaro che si tratta di una notevole riserva di calore, ma dobbiamo concludere che anche questa si esaurirebbe rapidamente e, in ogni caso, rappresenta una scorta utilizzabile solo in un futuro molto remoto e ipotetico, quando il Sole si sarà raffreddato a tal punto che gli elementi dissociati potranno combinarsi tra loro. Da questa prospettiva, attualmente, siamo ancora molto lontani.

Dall’analisi delle teorie più accreditate si deduce che siamo ancora distanti dal comprendere la costanza della temperatura del Sole, tanto da dover ammettere che esso si stia raffreddando continuamente e rapidamente, e che debba esistere un altro modo per rigenerare l’energia che perde.

Ora, esaminiamo come l’ipotesi dell’etere possa fornirci delle risposte. Abbiamo già visto come questa teoria potrebbe spiegare l’origine o meglio la conservazione del calore interno della Terra; un ragionamento simile può essere applicato anche al Sole. La Terra non è abbastanza grande perché il calore generato dalla resistenza dell’etere possa accumularsi e diffondersi fino alla superficie.

Giove, un gigante tra i pianeti del nostro sistema, ha un volume pari a 1279 volte e una massa 310 volte quella della Terra. Generalmente, si ritiene che Giove sia ancora molto caldo e forse completamente liquido, e si trova in una fase del suo sviluppo che la Terra ha già superato milioni di anni fa. Ma perché questa differenza? Perché Giove sembra così indietro rispetto al nostro pianeta? La sua maggiore massa, che ne rallenta il raffreddamento, può spiegare questo fenomeno, ma abbiamo visto che nemmeno la grande dimensione del Sole può giustificare la lentezza del suo raffreddamento, supponendo che tale raffreddamento sia effettivamente in corso. Pertanto, anche per Giove deve esistere una causa che mantenga la sua temperatura o che almeno ne ritardi il raffreddamento. Le teorie applicate al Sole, come la caduta di meteore e la lenta contrazione del suo diametro, sembrano non avere valore in questo contesto.

L’ipotesi dell’etere potrebbe quindi offrire una spiegazione anche per Giove, poiché, come per la Terra, non escludendo che il calore iniziale del pianeta derivi da un’altra causa primordiale, questa teoria potrebbe giustificare l’attuale fonte di calore che ne impedisce o ritarda il raffreddamento.

Considerando le dimensioni e l’imponente massa del Sole, che è 324000 volte quella della Terra, l’ipotesi dell’etere facilmente spiega l’origine del suo calore. Se una unità di massa rappresenta una certa resistenza all’etere, e quindi una certa quantità di energia trasformata in calore, il Sole dovrebbe produrre una quantità complessiva di calore pari a 300000 volte quella sviluppata contemporaneamente dalla massa terrestre. La vasta superficie solare, esposta alla libera penetrazione delle onde di etere, e il lungo percorso che queste devono compiere attraverso la sua massa, rendono improbabile che l’energia delle vibrazioni non venga completamente assorbita dagli attriti. Potrebbe anche essere che l’effetto dell’etere aumenti con la temperatura, come avviene per l’attrito di un perno che si scalda. Le condizioni particolari del nucleo solare, molto denso a causa dell’elevata pressione e con una temperatura altissima, potrebbero favorire l’assorbimento dell’energia dell’etere. In questo modo, il Sole non si comporterebbe come un corpo qualsiasi attraversato liberamente dalle vibrazioni dell’etere, ma le sue vibrazioni verrebbero in gran parte assorbite.

Ammesso che solo una parte dell’energia cinetica dell’etere si trasformi in calore, questo si accumulerebbe principalmente e continuerebbe a intensificarsi, poiché non potrebbe diffondersi per irradiazione ma solo per conduzione attraverso la materia o per movimenti di massa dal centro alla periferia. Date queste condizioni, è difficile stabilire un limite alla quantità di calore che può accumularsi nel Sole e quindi alle temperature che può raggiungere nel corso dei millenni. Di conseguenza, pur non escludendo che il calore originario del Sole, come quello di tutto il sistema planetario, dipenda da altre cause, e che altre cause possano contribuire a rigenerare parte del calore perduto, possiamo comprendere lo stato attuale del Sole, anche se l’ipotesi dell’etere fosse l’unica causa e la temperatura iniziale fosse stata molto bassa.

Come abbiamo visto per la Terra e Giove, l’azione dell’etere potrebbe limitarsi a ritardare il raffreddamento dell’astro, ma potrebbe anche essere sufficiente a mantenere indefinitamente le condizioni attuali.

Rapporto fra la massa e la temperatura dei pianeti

Abbiamo spiegato, usando la nostra ipotesi, lo stato attuale del Sole, della Terra e la situazione particolare di Giove. Ora esaminiamo (vedi la tabella n.1) le condizioni degli altri pianeti del nostro sistema. Per farlo, consideriamo il Sole e i vari pianeti in relazione alla Terra, usata come unità di riferimento.

Corpo celesteDiametro VolumeMassa Densità (in rapporto all’acqua)
Sole108.5 12800003240001.40
Giove11.112793091.36
Saturno9.3719920.73
Urano4.2 69140.82
Nettuno3.855161.65
Terra1115.50
Venere0.990.970.795.10
Marte0.530.160.11 3.90
Mercurio0.370.050.076.84
Luna0.270.020.013.40
tabella n.1


Analizzando i dati di questa tabella, ci colpisce il fatto che tutti i pianeti più piccoli, inclusa la Terra, sono significativamente più densi dell’acqua, con valori che variano da un minimo di 3.40 per la Luna fino a 6.84 per Mercurio, il più denso del nostro sistema. Al contrario, i pianeti più grandi della Terra, compreso il Sole, presentano una densità notevolmente inferiore, appena una volta e mezza quella dell’acqua o anche meno. La differenza di densità potrebbe derivare dalla composizione chimica di questi corpi, o dalla predominanza di elementi più o meno densi, che influenzano particolarmente i pianeti minori, solidi e freddi in superficie. Per quanto riguarda i pianeti maggiori, la grande differenza osservata sembra dipendere principalmente dalla loro elevata temperatura. Non possiamo escludere che anche la composizione chimica giochi un ruolo in questo contesto. I due giganti del nostro sistema, Giove e Saturno, mostrano solo una superficie nebulosa e sono riconosciuti come corpi in stato incandescente. Urano e Nettuno, nonostante la loro distanza dal Sole, mostrano una luminosità propria nei loro spettri, suggerendo che emettano luce.

Si può quindi concludere che tutti i grandi pianeti siano ancora incandescenti anche in superficie e che sostanze volatili come l’acqua rimangano in stato gassoso o nebuloso, creando attorno al nucleo solido o liquido un’atmosfera densa e spessa.

Di conseguenza, i corpi che osserviamo non sono i veri pianeti, ma le loro atmosfere, che danno loro un’apparenza di dimensioni maggiori rispetto alla realtà. Questo spiegherebbe la loro bassa densità apparente, determinata dalla presenza di uno spesso strato gassoso o nebuloso, a differenza dei pianeti minori, i cui solidi contorni sono chiaramente visibili e misurabili.

Ma perché i pianeti maggiori rimangono caldi? Questo fenomeno, già discusso per Giove, si può estendere agli altri grandi pianeti. Probabilmente non è necessaria una massa enorme come quella di Giove, 300 volte quella della Terra, per mantenere elevate temperature tramite l’etere; potrebbe bastare una massa minore, simile a quella di Saturno o anche di Urano, per mantenere i pianeti caldi anche in superficie. In queste condizioni, con un’atmosfera più densa dovuta alla maggiore massa e alla presenza abbondante di acqua, l’involucro nebuloso che conferisce al pianeta dimensioni apparentemente maggiori rispetto alla realtà sarebbe una conseguenza inevitabile.

Questa spiegazione appare logica se consideriamo le condizioni del nostro pianeta, coperto solo da una sottile crosta solida. Non sarebbe necessario che la superficie fosse estremamente calda; basterebbe che raggiungesse alcune centinaia di gradi per confinare tutta l’acqua dei mari o accumulata nel sottosuolo e nella crosta in alte nubi o vapore atmosferico. In questo stato, l’intera superficie della Terra apparirebbe velata, dando a un osservatore esterno l’impressione di un pianeta simile ai giganti gassosi, con un diametro apparentemente maggiore e una densità media corrispondentemente inferiore.

Potrebbe bastare che la massa della Terra fosse raddoppiata rispetto all’attuale perché il calore del suo nucleo raggiungesse la superficie, mantenendo così le condizioni che ora ipotizziamo. Seguendo questa logica, la nostra teoria potrebbe anche spiegare perché i pianeti come Urano e Nettuno appaiono in uno stato incandescente e presentano una densità relativamente bassa. Senza una fonte di energia come quella che supponiamo fornita dall’etere, tali condizioni non si sarebbero potute prolungare nel tempo.

Come si possa mantenere e rigenerare l’energia nell’universo

Fino a questo punto, la nostra ipotesi, come le altre menzionate, fornisce una spiegazione solo per una fase della vita degli astri. Persistono molte incognite: come si è generata l’energia accumulata nel nostro sistema fin dalle sue origini? Cosa accadrà se il Sole e gli altri astri si estinguessero? E cosa succede a tutta l’energia che, irradiandosi dagli astri, sembra disperdersi nello spazio?

Vediamo se la nostra ipotesi può spiegare questi misteri. Abbiamo visto come l’ipotesi dell’etere possa spiegare l’origine del calore solare e come possa ipotizzarsi un equilibrio tra l’energia che entra e quella che esce dal Sole, un equilibrio che potrebbe teoricamente durare all’infinito, dato che la fonte di energia dell’etere sembra inesauribile.

Tuttavia, qualsiasi livello di attività si consideri, si tratta sempre di uno stato transitorio, seppur molto lungo, del processo evolutivo universale, da cui nulla può sottrarsi. Non è possibile ammettere in natura uno stato di quiete assoluta o l’assenza di energia, né è pensabile che una particolare fase della vita, come quella attuale del nostro sistema, possa durare per sempre. È inevitabile che il nostro pianeta e il Sole un giorno si trasformeranno e forse contribuiranno a questo ciclo perpetuo di materia ed energia, alla formazione di altri sistemi, di altri mondi.

L’agente universale che governa tutto questo processo di trasformazione, al quale la materia obbedisce passivamente, è l’etere, che Newton ha definito lo Spirito dell’Universo, rappresentante dell’energia e della vita. L’energia esiste in forma primordiale e semplice, come le vibrazioni dell’etere che riempiono gli spazi e penetrano negli aggregati di materia, conferendo loro tutte le proprietà che le caratterizzano. Calore, luce, magnetismo, elettricità, attrazione e tutte le altre forme in cui si manifesta l’energia non esisterebbero se non come derivati della forza innata di questo fluido universale, trasformata dagli attriti e dalle molteplici azioni che promuove all’interno degli aggregati materiali.

L’etere funge anche da serbatoio che assorbe e immagazzina l’energia dispersa dai corpi sotto forma di diverse radiazioni, come quelle caloriche e luminose. Le radiazioni che emanano dagli astri, essendo forme particolari delle vibrazioni dell’etere, si propagano per lunghissime distanze nello spazio, perdendo gradualmente intensità, disperdendosi e trasformandosi nell’unica e generale vibrazione che pervade l’infinito. Con questa ipotesi si spiegherebbe come il calore irradiato e tutte le energie perse dal Sole e dalle stelle non vengano realmente perse, ma siano assorbite e raccolte. Questa conclusione offrirebbe una soluzione significativa al problema della conservazione dell’energia nell’universo.

Così, il ciclo dell’etere si chiude: la sua energia si trasferisce alla materia; il calore e la luce del Sole e delle stelle sono semplicemente derivazioni e l’energia dispersa dalla materia ritorna al serbatoio universale, l’etere. “Nulla si perde, nulla si distrugge”, vale tanto per la materia quanto per l’energia.

Abbiamo così fatto un grande passo avanti, spiegando come si conservi l’energia nell’universo, ma esploriamo ora quali altre conclusioni può portarci la nostra ipotesi. Come abbiamo osservato, più grande è la massa di un corpo celeste, tanto maggiore sarà la quantità di calore generato dagli attriti dell’etere e della materia. La Terra, pur essendo solida e fredda esternamente, è estremamente calda subito sotto la crosta terrestre; Giove, molto più grande della Terra, è ritenuto caldo e liquido anche in superficie. Infine, il Sole, grazie alla sua enorme massa, mantiene una temperatura elevata che sostiene la vita sui pianeti che gli orbitano attorno.

Proseguendo con questa logica, cosa potrebbe succedere se esistesse un corpo celeste ancora più grande del nostro Sole? È probabile che tale corpo avrebbe una temperatura ancora più alta. Si ritiene che stelle come Sirio, e potenzialmente milioni di altre non visibili a causa della grande distanza, siano più calde e luminose proprio a causa della loro maggiore grandezza. Secondo la nostra ipotesi, un’elevata temperatura e una maggiore luminosità sarebbero la diretta conseguenza di una massa superiore, a meno che non si considerino casi particolari di stelle più giovani in una fase di maggiore attività.

Ma cosa accadrebbe se si formassero corpi ancora più massicci? Il calore generato dall’azione dell’etere continuerebbe ad aumentare fino a un limite in cui la materia, ormai completamente gassosa, cesserebbe di rispondere alla forza di attrazione e si disperderebbe, ritornando allo stato di nebulosa primitiva. L’idea che l’etere influenzi così intensamente grandi masse di materia non è irragionevole. È possibile che questo scenario si verifichi anche nel nostro sistema solare? Gli astronomi hanno ipotizzato che i pianeti potrebbero essere attratti verso il Sole; una tale caduta, oltre all’effetto meccanico diretto che fornirebbe calore aggiuntivo al Sole aumentandone la massa, dovrebbe intensificare la temperatura a causa di una maggiore attività dell’etere. Tuttavia, considerando che la massa attuale del Sole è circa settecento volte quella di tutti i pianeti combinati, un tale incremento non porterebbe a un aumento significativo della temperatura.

Non possiamo escludere altre possibilità che potrebbero incrementare notevolmente la massa del Sole. Anche se improbabili, cadute di materiale meteorico potrebbero influenzare significativamente l’aumento della massa solare nel tempo. Inoltre, benché poco probabile, resta la possibilità che il nostro sistema solare incontri un altro corpo celeste nel suo viaggio verso la costellazione di Ercole, cambiando drammaticamente il destino del sistema. Distinguiamo l’effetto immediato e transitorio di un simile impatto, da quello più duraturo e significativo causato da un enorme aumento della massa solare.

Sebbene si tratti di scenari altamente ipotetici, non possiamo escludere che nel corso del tempo il Sole possa raggiungere dimensioni tali da aumentare notevolmente la sua attività, forse fino a dissolversi in una nebulosa. Considerando l’attuale livello di attività solare, si potrebbe anche dubitare della necessità di un così forte aumento della sua massa. Attualmente, infatti, si verificano sul Sole sconvolgimenti tali che, se l’attività del Sole dovesse aumentare anche di poco, una quantità significativa di materia solare potrebbe essere espulsa nello spazio, superando la forza gravitazionale che la lega al Sole.

Durante le eclissi totali di Sole e persino in pieno giorno, grazie all’uso di spettroscopi speciali, si osservano al bordo del disco solare delle protuberanze che ricordano getti ardenti o fiamme, sopra le quali a volte si formano nuvole luminose simili a quelle terrestri.

Questi getti ardenti raggiungono normalmente altezze tra i 30000 e i 45000 chilometri, ma possono estendersi fino a 100000 o 200000 chilometri. Flammarion ne ha registrati alcuni fino a 460000 chilometri, circa un terzo del diametro solare.

Young ha osservato una protuberanza il 7 ottobre 1880 che raggiungeva quasi 600000 chilometri di altezza dal bordo del Sole. Questa enorme protuberanza, originariamente alta 65000 chilometri, ha raggiunto dimensioni straordinarie e poi è scomparsa in solamente due ore.

Le protuberanze cambiano forma rapidamente e il loro movimento ascendente può essere quasi percepito a occhio nudo. La velocità di ascesa è stimata oltre i 300 chilometri al secondo; Respighi ha misurato velocità tra 600 e 800 chilometri al secondo. Proctor sostiene che la velocità possa superare gli 800 chilometri al secondo, considerando la resistenza dell’atmosfera solare, una velocità tale da permettere a una sostanza densa di sfuggire alla forza gravitazionale del Sole.

È importante notare che l’osservazione delle protuberanze si limita al bordo visibile del disco solare, ma il fenomeno si estende ben oltre questa regione. Ciò suggerisce che getti ancora più grandi possano formarsi frequentemente, con velocità superiori a quelle finora osservate. Nonostante le condizioni particolari del Sole, risulta difficile comprendere come getti puramente gassosi possano elevarsi a tali altezze con velocità di centinaia di chilometri al secondo attraverso un’atmosfera densissima.

Young spiega che il calore irradiato dal Sole dovrebbe causare intense condensazioni dei vapori solari. La quantità di calore emesso in un minuto sarebbe equivalente a quella necessaria per condensare vapore d’acqua in un volume tale da formare uno strato di due metri di altezza. Se i vapori solari si condensassero in tale quantità, non cadrebbero come pioggia, ma si depositerebbero in strati, creando un ostacolo significativo per i gas provenienti dall’interno, che dovrebbero forzare il loro passaggio, generando esplosioni. Questa spiegazione, sebbene intrigante, non convince pienamente. Se accettiamo l’ipotesi di una condensazione così estesa proposta da Young, dovremmo immaginare che su tutta la superficie del Sole si formi un continuo strato liquido capace di trattenere i gas ad alta pressione.

Forse le fiamme e le esplosioni solari che osserviamo sono solo gli aspetti più evidenti di un fenomeno più complesso. Questo potrebbe essere paragonato al fumo e alle fiamme che scaturiscono da un colpo di cannone. Si potrebbero verificare esplosioni nel profondo del Sole, specificamente nel suo nucleo liquido, che causano l’eiezione di materiale solido o liquido. Questo materiale, lanciato verso l’esterno attraverso la fotosfera, potrebbe sollevare i gas luminosi presenti.

In questo contesto, le fiamme osservate sarebbero composte principalmente dai gas della fotosfera. Tuttavia, potrebbero anche derivare dal materiale liquido o solido espulso che, a causa dell’elevata temperatura e della ridotta pressione incontrata mentre sale, si vaporizzerebbe rapidamente lungo la sua traiettoria. Questo processo potrebbe essere all’origine dei vapori metallici che si trovano prevalentemente nella parte inferiore delle protuberanze solari e che sembrano originarsi nel nucleo. Le straordinarie velocità di ascensione osservate nelle protuberanze solari potrebbero essere superate dalle porzioni non gassose. Queste, non riuscendo a vaporizzarsi completamente durante il loro percorso, potrebbero occasionalmente essere proiettate nello spazio esterno senza mai ritornare. Questa spiegazione supporterebbe l’idea che le eruzioni solari siano responsabili della formazione di bolidi e meteoriti, suggerendo che il Sole in questi eventi tenda a perdere materiale piuttosto che acquisirne, contrariamente a quanto suggerisce l’ipotesi meteorica. Se le protuberanze sono causate da esplosioni, queste dovrebbero originarsi dall’accumulo di gas sotto forte pressione in un ambiente che può sostenere tali tensioni, verosimilmente un liquido sotto intensa pressione.

Abbiamo già notato in precedenza che il nucleo del Sole può essere considerato liquido, simile all’acqua in una caldaia che rimane in stato liquido anche a temperature molto elevate, regolando la sua temperatura in base alla pressione. Nel caso del Sole, un incremento della fonte di calore porterebbe a un aumento dell’ebollizione, con conseguente maggior sviluppo di gas che si unirebbero agli strati gassosi e alle nubi della fotosfera, mentre il prodotto condensato tornerebbe al nucleo liquido. Sorge il dubbio su quale sia l’origine della fonte di calore che sembra emanare dal centro del Sole, una questione che non è stata ancora spiegata. La quantità di energia interna del Sole dovrebbe esaurirsi rapidamente; deve quindi esistere una causa esterna, come suggerito dalla nostra ipotesi, che esercita la sua azione principalmente verso il centro.

L’attività solare sembra non mostrare segni di diminuzione. Se l’attività dovesse aumentare anche leggermente, come ipotizzato, ciò potrebbe causare la dispersione di notevoli quantità di materia nello spazio. Tuttavia, un eccesso di attività solare potrebbe portare a un cambiamento radicale nei fenomeni che caratterizzano lo stato attuale del Sole.

Considerando che il nucleo del Sole è liquido, un eccesso di energia potrebbe causare una graduale riduzione fino alla sua completa scomparsa, trasformando il Sole in un corpo interamente gassoso e notevolmente più grande. In questa fase, non dovrebbero più verificarsi gli sconvolgimenti e le espulsioni tipiche del nucleo liquido.

Gli astronomi ritengono che il Sole sia già passato attraverso una fase gassosa, durante la quale era un globo molto più grande ma più tranquillo, meno luminoso e meno caldo, sebbene contenesse più energia. L’interazione dell’etere con la materia genera calore attraverso l’attrito, e la sua efficacia aumenta con la densità della materia stessa. Di conseguenza, la scomparsa del nucleo liquido nel Sole comporterebbe una significativa riduzione nella produzione di calore dovuta all’etere.

Analogamente, nelle sue fasi iniziali, quando il Sole era completamente gassoso, avrebbe perso gradualmente il suo calore, senza che dall’esterno arrivasse un apporto significativo di energia. Solo con il progressivo raffreddamento e la formazione del primo nucleo liquido, iniziò a manifestarsi una notevole quantità di calore dal centro. Tuttavia, il calore sviluppato inizialmente era troppo scarso per compensare il calore irradiato, quindi il nucleo continuò a crescere a spese della parte gassosa, fino a raggiungere un equilibrio tra il calore sviluppato e quello irradiato.

Quando il Sole era interamente in stato gassoso, emetteva meno calore nonostante avesse un diametro molto più grande, poiché la sua massa era meno turbolenta, limitandosi principalmente allo scambio di gas freddi dalla superficie con quelli caldi dal centro. Tuttavia, con la formazione di un nucleo liquido, si sono sviluppate correnti ascendenti violente ed esplosioni dovute all’eccessiva temperatura al centro. Questi fenomeni, che caratterizzano l’attuale stato del Sole, rendono la sua superficie non più uniforme e tranquilla, ma irregolare e turbolenta a causa delle protuberanze che espellono materiale e gas molto caldi dal centro, mantenendo la superficie costantemente attiva e luminosa.

Arrivando a una conclusione, la nostra ipotesi ci porta a considerare tre scenari futuri per il Sole:

  1. Il calore prodotto dall’azione dell’etere potrebbe bilanciare le perdite per irradiazione, suggerendo che questo stadio potrebbe durare indefinitamente;
  2. Se materiali cadessero sul Sole aumentandone la massa, l’attività solare potrebbe intensificarsi significativamente. In questo scenario, la violenza delle eruzioni potrebbe portare alla separazione di una porzione notevole della sua materia, che potrebbe poi disperdersi;
  3. In un altro scenario, il nucleo liquido potrebbe scomparire completamente, riportando il Sole a uno stato completamente gassoso.

Qualunque sia il destino del Sole, è esclusa la possibilità di un’estinzione completa, un risultato che sarebbe inevitabile secondo altre teorie. Questo principio non si applica solo al Sole, ma a tutti i grandi aggregati di materia, ossia le stelle, che sono destinate a rimanere perpetuamente attive poiché stimolano, trasformano e immagazzinano l’energia diffusa nello spazio.

In questo modo, la vita nell’universo si mantiene infinitamente; l’energia emessa dalla materia degli astri viene trasformata e raccolta nel serbatoio infinito dell’etere e successivamente restituita alla materia degli astri in un ciclo continuo.

Altre conseguenze importanti dell’ipotesi

Secondo la classificazione di Secchi, le stelle sono categorizzate in tre tipi in base al loro spettro: stelle bianche, gialle e rosse. Le stelle bianche, che sono le più calde, costituiscono anche la maggioranza. Le stelle gialle, che includono il nostro Sole, rappresentano circa il 35% del totale e mostrano segni di essere nella fase iniziale di raffreddamento. Le stelle rosse, che costituiscono il 5% delle stelle, sono in uno stadio avanzato di raffreddamento.

La predominanza delle stelle caldissime e calde suggerisce secondo la maggior parte degli astronomi che queste sono nate con una quantità di energia destinata a esaurirsi, indicando una possibile origine contemporanea legata alla Via Lattea, la grande nebulosa di cui fanno parte tutte le stelle visibili, incluso il nostro sistema solare. Se fossero nate in epoche differenti, mostrerebbero livelli di attività diversi.

Questo modo di vedere le cose, alla luce delle nostre ipotesi, offre una prospettiva diversa. L’epoca di origine delle singole stelle sembra non avere particolare importanza visto che, come abbiamo osservato per il Sole, si presume che possano essere continuamente alimentate da energia esterna. Secondo questa ipotesi, l’universo appare più stabile e antico di quanto comunemente si pensi; le condizioni attuali potrebbero teoricamente persistere indefinitamente.

I diversi colori delle stelle, che riflettono vari livelli di attività, possono essere spiegati dalla loro dimensione. Le stelle bianche sono le più grandi e quindi con la massa maggiore; le rosse sono le più piccole. Essere più piccole non significa necessariamente che stiano per estinguersi. In realtà, la loro durata potrebbe essere paragonabile a quella delle stelle bianche a causa della loro massa limitata.

Un aumento della massa del Sole potrebbe incrementare la sua attività, facendolo assomigliare alle stelle bianche. Un ulteriore aumento potrebbe portare alla disgregazione o alla completa volatilizzazione della stella. Questo suggerirebbe che le stelle bianche rappresentano il limite massimo di massa che un corpo celeste può raggiungere prima di disgregarsi a causa dell’eccesso di temperatura, portando alla formazione di nebulose o frammenti espulsi da esplosioni. Tale processo potrebbe anche spiegare la formazione di sistemi stellari doppi o multipli, originati da un eccesso di massa nel corpo celeste primordiale.

Questa spiegazione potrebbe anche aiutare a comprendere perché le stelle bianche sono così prevalenti, essendo probabilmente tutte di massa simile e rappresentando il massimo di materiale aggregato possibile prima di disintegrarsi.

L’ipotesi dell’etere applicata alle nebulose e alle stelle

Passo dopo passo, con l’ipotesi dell’etere, abbiamo cercato di affrontare, con risultati diversi, uno dei problemi più complessi della scienza: l’origine e la conservazione dell’energia dell’Universo. Proseguendo con le nostre induzioni e ipotesi, cerchiamo di approfondire i misteri legati a quei corpi celesti che sono le nebulose, le cui storie sembrano interconnesse con quelle delle stelle e di tutti i sistemi.

Le nebulose autentiche, da non confondere con quelle che al telescopio appaiono come agglomerati di stelle, rivelano tramite analisi spettrale di essere composte interamente da materiali gassosi.

Le idee più recenti suggeriscono che la debole luce delle nebulose derivi dalla concentrazione di materia che le costituisce. Tuttavia, data la lentezza della condensazione e l’estremo grado di rarefazione dei gas che le formano, è difficile comprendere come possano mantenere una temperatura sufficientemente alta per diventare luminose in ambienti così freddi.

Per illustrare la rarefazione delle nebulose, Faye ipotizza che la materia del Sole sia dispersa in una sfera il cui raggio è dieci volte quello dell’orbita di Nettuno, ovvero 64500 volte il raggio del Sole, con un raggio dell’orbita di Nettuno pari a 6450 volte il raggio solare.

In una sfera così vasta, la materia solare, con una densità media di 1.4 volte quella dell’acqua, avrebbe una densità 64500 volte inferiore. In tale condizione di estrema rarefazione, le particelle, essendo distanziate di 64500 volte rispetto alla loro disposizione originaria, manterrebbero ancora una qualche interazione reciproca? In queste circostanze, l’attrazione che lega le singole particelle, riducendosi con il quadrato della distanza, sarebbe circa 4160250000 volte minore.

Per confronto, un gas con una densità mille volte inferiore a quella posseduta da solido non avrebbe le particelle che dieci volte più distanziate, e l’attrazione in stato gassoso tra le singole particelle sarebbe solo cento volte minore rispetto allo stato solido.

Nel caso delle nebulose, in condizioni di tale estrema rarefazione, le particelle, distanti tra loro, potrebbero essere considerate quasi inerti, soggette solo a una minima attrazione che le spinge verso il centro della nebulosa. È concepibile che la loro caduta estremamente lenta, che potrebbe richiedere milioni di anni per diventare apprezzabile, possa causare un incremento della temperatura della massa, in ambienti così gelidi, che sarebbe responsabile della debole luce delle nebulose? Non lo credo: le nebulose devono essere estremamente fredde, con una temperatura pari a quella dello spazio, e la luce che emettono dipende sicuramente da altre cause.

Se la luce delle nebulose non è dovuta a incandescenza, da quale altra fonte potrebbe derivare? Quali processi interni potrebbero generarla? Potrebbe essere il risultato di qualche interazione particolare che l’etere, come agente universale, esercita con le sue vibrazioni sulla sottile materia delle nebulose? Potrebbero essere fenomeni elettrici, magnetici o forse di una natura a noi ancora sconosciuta. È un campo aperto a ogni speculazione, poiché la scienza non ha ancora chiarito la vera natura delle nebulose.

Questo è il punto in cui, come corollario alla nostra ipotesi, vorrei proporre alcune idee che potrebbero spiegare il problema. Parlando della struttura intima dei corpi, che si ritiene siano composti di molecole divisibili in atomi, e questi a loro volta formati da particelle elementari raggruppate in vari modi, ma probabilmente identiche tra loro anche se di sostanze diverse, ho accennato alla possibilità che queste particelle elementari siano della stessa natura, o addirittura identiche all’etere che permea lo spazio.

La spiegazione che abbiamo dato dell’attrazione tra particelle e tra corpi può essere completamente valida anche se immaginiamo che al posto delle particelle considerate materiali ci siano particelle di vero etere. Naturalmente, queste particelle di etere dovrebbero essere considerate come imprigionate e non più completamente libere; pur avendo la stessa natura dell’etere, rappresentano la materia vera e propria, perché costrette a sottostare alle sue leggi. Questo è plausibile, o meglio, probabile: la materia e l’etere sono la stessa entità. Uno è l’agente universale completamente libero e autonomo con tutta la sua forza innata; l’altro è lo stesso etere ma reso schiavo, confinato nei suoi movimenti entro limiti stretti e precisi.

Una volta accettato ciò, sembra legittimo chiedersi: la materia è sempre esistita? Si può immaginare che tutte le particelle di etere, ora costituenti la materia, fossero una volta libere e che non esistesse materia? Le particelle dei corpi potrebbero ancora dissolversi e tornare libere nell’infinito oceano dell’etere? La materia, composta di fatto dal nulla, potrebbe ritornare nel nulla? Questo concetto di materia potrebbe applicarsi a una nuova teoria sulle nebulose.

L’ipotesi di Laplace parte da una nebulosa già formata, ma non riesce a spiegare come tale nebulosa sia originata o come sia stata generata l’energia iniziale che essa accumula: è il classico problema eterno e ancora irrisolto. Ebbene, non potrebbero le nebulose essere materia in formazione, etere in eccesso che si accumula lentamente fino a rimanere imprigionato?

Forse, sotto certe condizioni particolari negli immensi spazi dove l’etere vibra incessantemente, potrebbero verificarsi nodi delle onde di etere o fenomeni simili alle interferenze delle onde sonore e luminose, causando ingorghi e accumuli eccessivi di particelle di etere che, perdendo gradualmente l’eccesso della loro forza iniziale assorbita dall’etere libero, finiscono per rimanere imprigionate formando ciò che chiamiamo materia. A questo intenso lavoro interno, questa sorta di lotta tra le particelle libere e quelle che gradualmente vengono imprigionate, potrebbe essere attribuita l’origine della luce delle nebulose.

Un esperimento fisico comune usa una lamina vibrante su cui si sparge sabbia finissima, che a causa delle vibrazioni si dispone lungo certe linee chiamate nodali, creando vari disegni ([N.d.A.] vedi la figura n.7).

figura n.7 (www.curiosauro.it)

Questo esperimento potrebbe avere qualche analogia con il comportamento dell’etere nello spazio quando, come già menzionato, non si tratta di fenomeni simili alle interferenze. Due moti vibratori che si propagano lungo la stessa linea possono sia annullarsi che sommarsi a seconda che le loro fasi vibratorie siano discordanti o concordanti ([N.d.A.] quello che oggi chiamiamo interferenza distruttiva e costruttiva). Nel caso del suono ciò può risultare in un aumento o anche in una cessazione completa del suono. Fenomeni simili, chiamati interferenze, possono verificarsi anche con i raggi caloriferi e luminosi, portando ad un aumento del calore e della luce o anche al freddo e all’oscurità.

Il caso delle vibrazioni luminose e calorifere si adatta al nostro scenario, considerando che tali fenomeni sono dovuti a vibrazioni particolari dello stesso agente, l’etere. Anche l’etere nello spazio è agitato da vibrazioni in tutte le direzioni, che si incontrano e si intrecciano. Perché non potrebbero formarsi nodi in cui le varie vibrazioni si annullano, creando stagni di particelle di etere? Oppure, perché non potrebbero verificarsi fenomeni simili alle interferenze, con rinforzi in certi centri e accumuli di etere, mentre in altri si verificano depressioni e diradamenti?

L’esistenza di questi nodi nello spazio, di questi nuclei di concentrazione, potrebbe determinare la formazione delle nebulose, la cui posizione sarebbe influenzata, o addirittura provocata, dalla posizione di altri nodi simili, centri di altre nebulose forse già trasformate in stelle da lungo tempo.

Come esiste una legge fissa che regola la lunghezza delle onde sonore, luminose e calorifere, responsabile del fenomeno delle interferenze, dovrebbe esistere anche una legge per la vibrazione dell’etere nello spazio. Pertanto, ogni stella o nebulosa, apparentemente disperse a caso, potrebbe avere una spiegazione razionale, poiché potrebbero rappresentare i centri di queste interferenze, collegando armoniosamente l’intero universo.

Questo legame potrebbe essere considerato superiore persino alla gravitazione, la cui efficacia a distanze astronomiche tra le stelle è molto dubbia. Analogamente al fenomeno delle vibrazioni di una lamina, che produce linee nodali, la formazione del nostro sistema solare e di altri sistemi potrebbe essere spiegata con l’ipotesi delle vibrazioni dell’etere.

Immaginiamo che il primo nucleo del futuro Sole abbia indotto nella nebulosa compressa, in relazione alla lunghezza delle onde eteree, molteplici linee nodali corrispondenti alle orbite dei vari pianeti. Su queste orbite si sarebbe accumulata la materia della nebulosa in forma di anelli, che poi si sarebbero concentrati nei pianeti orbitanti intorno al Sole, seguendo le leggi della gravitazione.

La legge di Bode, che mostra come le orbite dei pianeti non siano disposte a caso ma seguano una precisa armonia matematica, conferma questa ipotesi. Prendendo i numeri 0, 3, 6, 12, 24, 48, 96, 192, ognuno dei quali è il doppio del precedente, e aggiungendo a ciascuno il numero 4, otteniamo le seguenti cifre: 4, 7, 10, 16, 28, 52, 100, le quali esprimono con sorprendente approssimazione il rapporto delle distanze dei pianeti fra di loro. Infatti, assegnando il numero 10 alla distanza della Terra dal Sole, si ottengono le seguenti cifre per le distanze reali dei singoli pianeti:

Mercurio: 3.9
Venere: 7.2
Terra: 10
Marte: 15.2
Asteroidi: 20-35
Giove: 52
Saturno: 95
Urano: 192

Oltre Urano c’è Nettuno, che rappresenta un’eccezione alla regola, poiché dovrebbe trovarsi a una distanza di 388 seguendo il calcolo 192 + 192 + 4, ma si trova solo a 300. Flammarion, da cui prendo queste cifre, ritiene che questa apparente corrispondenza sia solo una curiosa coincidenza e non una vera legge. Tuttavia, la coincidenza è troppo significativa per essere casuale e potrebbe supportare la nostra ipotesi, indicando forse l’esistenza di una legge che governa le vibrazioni dell’etere nello spazio.

Le leggi della gravitazione spiegano perfettamente il movimento dei pianeti intorno al Sole. Ma da dove proviene il primo impulso? E una volta avviato, potranno i pianeti mantenere il loro moto eterno nella stessa orbita, considerando che gli spazi sono privi di qualsiasi fluido che offra resistenza, anche minima, che potrebbe rallentarli nel tempo? Potrebbe l’etere influenzare questo processo a lungo termine? Anche la rotazione dei pianeti e del Sole su se stessi come si mantiene? Per la Terra, l’effetto delle maree, che non è trascurabile, esso dovrebbe rallentare la rotazione del pianeta.

Un fenomeno simile dovrebbe verificarsi anche nel Sole: la notevole differenza di velocità tra l’equatore e le regioni vicino ai poli indica che l’involucro gassoso si muove passivamente, offrendo una certa resistenza al nucleo in movimento.

E che dire del movimento del Sole verso la costellazione di Ercole e dei movimenti analoghi delle altre stelle? Come possono tutti questi movimenti mantenere la loro energia senza una causa, anche debole, che ne rinnovi le energie perse? E queste cause potrebbero risiedere nelle vibrazioni secondarie e indirette dell’etere?

Se fosse così, la gravitazione tra gli astri potrebbe essere paragonata al movimento di un pendolo, che rallenta a causa delle resistenze, ma riceve un leggero impulso da un meccanismo di orologio a ogni oscillazione, mantenendo costante il movimento senza alterare la legge dell’oscillazione. L’influenza dell’etere nel movimento degli astri potrebbe quindi essere paragonata a questo impulso ricevuto dal pendolo.

Tornando alle nebulose, in linea con il fenomeno delle interferenze, dovrebbero esistere centri di depressione in cui la materia viene dispersa e annientata, per essere poi riassorbita dagli spazi e trasformata in etere originario. Tuttavia, un tale fenomeno, che richiederebbe un immenso assorbimento di energia fornito dall’etere libero, sarebbe molto lento e si verificherebbe solo con la materia già a temperature molto alte o in stato gassoso o nebuloso. Sarebbe logico pensare che la materia possa impiegare lo stesso tempo sia per aggregarsi e formare la nebulosa sia per dissolversi e ritornare a uno stato di etere libero, assorbendo o liberando la stessa quantità di energia. Quindi le nebulose che osserviamo potrebbero essere sia in fase di formazione sia in fase di dissoluzione.

Con ciò, sembra che stiamo mettendo in discussione il principio fondamentale della scienza che afferma l’indistruttibilità della materia. In realtà, questo principio rimane valido poiché l’ipotesi sostiene che la materia, nella sua essenza più intima, sia eterna e indistruttibile, ma che possa essere considerata uno stato speciale dell’etere quando è privata di gran parte dell’energia innata di cui è dotata.

Si potrebbe considerare plausibile che ci sia realmente una trasformazione dell’etere libero in materia, e viceversa, che la materia ritorni in etere libero. Questo primo fenomeno sarebbe caratterizzato da un grande sviluppo energetico, mentre il secondo da un riassorbimento di energia. La materia, saturata di tutta l’immensa energia di cui è capace e infinitamente disgregata, formerebbe l’etere. Privata di gran parte dell’energia iniziale, sarebbe necessariamente aggregata, dando vita a quella che chiamiamo materia.

Immaginiamo l’universo primitivo, completamente libero da qualsiasi corpo celeste, con solo l’etere a occupare lo spazio. Questo stato di perfetto equilibrio era destinato a interrompersi a causa delle proprietà repulsive dell’etere nei confronti della materia. Un minimo ingorgo o un eccesso di energia nell’oceano infinito dell’etere avrebbe potuto far sì che alcune porzioni di etere, intrappolate nei movimenti, rimanessero imprigionate, limitate sempre più nell’ampiezza delle loro vibrazioni, costrette a cedere gradualmente l’eccesso di energia. Questo sarebbe stato il nucleo della prima nebulosa, il germe della futura materia.

Un processo del genere, che deve essere assai lento data la grande quantità di energia da liberare, potrebbe essere avvenuto contemporaneamente in più punti del cielo, formando così più nuclei nebulosi. Le vibrazioni dell’etere, non trovando più lo spazio completamente libero, avrebbero iniziato a subire influenze, creando, secondo certe leggi legate alla lunghezza delle onde dell’etere, nodi o rinforzi o indebolimenti in numerosi punti dello spazio, non più distribuiti a caso ma con ordine e armonia.

Così, attraverso una lenta trasformazione, o meglio concentrazione dell’etere in materia (se questo termine può essere considerato appropriato per la sostanza estremamente tenue formatasi inizialmente), tutte le nebulose del cielo sarebbero nate. Questo fenomeno continuativo, estendendosi per periodi di tempo molto lunghi, avrebbe permesso alle nebulose di raggiungere dimensioni considerevoli.

Questa nuova ipotesi cosmogonica potrebbe offrire una soluzione al problema dell’origine delle nebulose o del cosiddetto Caos primitivo, un problema al quale tutte le altre teorie finora proposte non sono riuscite a dare una risposta definitiva.

Le ipotesi, come quella di Laplace, spiegano come dagli aggregati nebulosi si siano poi formati gli astri. Si potrebbe pensare che tutte le nebulose, sia quelle ancora esistenti come tali sia quelle trasformate in stelle, siano contemporanee; tuttavia, si potrebbe ipotizzare che, in alcuni casi, il processo di concentrazione sia stato più rapido mentre in altri più lento.

D’altro canto, non si può escludere che la formazione delle nebulose sia avvenuta in tempi successivi e che, a seguito della progressione di uno o più centri di accumulo di materia, l’influenza di tali centri sulle vibrazioni dell’etere nello spazio ancora libero abbia potuto generare nuovi centri di concentrazione e, quindi, formare nuove nebulose successivamente . Anche lo spostamento relativo dei vari centri, nei movimenti stellari, potrebbe essere stato un fattore nella formazione di nuovi centri nebulosi.

Ho menzionato anche la possibilità che esistano centri di dispersione, nei quali si verifica un diradamento del fluido etereo, tale che se della materia vi capitasse, potrebbe disperdersi e scomparire. Questo potrebbe essere il destino di alcune nebulose che, nei movimenti celesti, finiscono in tali centri di dispersione, analogamente a quanto si potrebbe ipotizzare nel ciclo finale di alcune stelle, che, piuttosto che raffreddarsi come comunemente si crede, potrebbero a causa di un eccesso di temperatura e attività, ritornare allo stato gasoso o nebuloso.

Conclusione

Le varie teorie che abbiamo sviluppato, le quali abbracciano il ciclo completo dell’etere, possono essere riassunte in una singola ipotesi: tutti i fenomeni dell’universo, direttamente o indirettamente, dipendono da una sola forza e da un unico principio, l’etere. Questo rappresenta l’energia nella sua forma più pura ed è infinito, così come lo sono gli spazi.

Inizialmente, nulla esisteva all’infuori di questo fluido, che può essere considerato il principio o l’essenza stessa della materia. La natura di questo fluido e il suo modo di vibrare, che abbiamo cercato di spiegare all’inizio di questo lavoro, potrebbero ora risultarci più chiari.

L’etere è composto da particelle estremamente piccole, dotate di una certa quantità di energia cinetica che permette loro di muoversi attraverso lo spazio.

In assenza di cause perturbatrici, queste particelle, completamente libere, si muovono lungo traiettorie rettilinee che sarebbero infinite, se non fossero interrotte dall’incontro con altre particelle, anch’esse in movimento, provenienti da direzioni diverse: a seguito di questi urti, le loro traiettorie cambiano direzione.

Questo dovrebbe essere il comportamento tipico delle vibrazioni dell’etere, quando sono influenzate solo dalla propria energia interna e non alterate da altre forme di energia come il calore, la luce o l’elettricità, che sono derivati indiretti dell’energia primaria dell’etere.

Immaginiamo gli spazi originariamente vuoti di qualsiasi astro o corpo materiale, occupati esclusivamente dall’etere, che in questa fase può essere considerato come la materia stessa, infinitamente frammentata. Le particelle di etere, dotate di una velocità inimmaginabile, rappresentano lo stato più semplice dell’energia e della vita che animano l’universo.

In questo scenario, l’attrazione ([N.d.A.] la gravità e le altre interazioni fondamentali), che è una caratteristica fondamentale della materia propriamente detta, ovviamente non esiste ancora. L’attrazione si manifesta solo quando due particelle di etere, trovatesi casualmente una di fronte all’altra e spinte da urti con altre particelle, vengono forzate l’una verso l’altra, come abbiamo descritto. Questo è il principio dell’attrazione e segna la formazione del primo nucleo di materia, poiché queste particelle di etere, non più libere come le altre, sono vincolate dalle forze attrattive che esse stesse generano.

L’attrazione, questa nuova forza che emerge con l’apparizione dei nuclei materiali, rappresenta il modo più diretto, semplice e costante in cui l’energia si manifesta, tanto che un’unità di attrazione corrisponde a un’unità di materia, ovvero a un’unità di massa.

Tutte le altre forze, come le varie manifestazioni di energia e le proprietà fisiche e chimiche dei corpi (calore, luce, elettricità, ecc.) sono espressioni della stessa energia originaria dell’etere, ma sono il risultato di trasformazioni che l’energia subisce all’interno degli aggregati materiali.

L’energia dell’universo è rappresentata dall’energia cinetica dell’etere in movimento, espressa dalla formula mv².

Il termine v, ossia la velocità delle vibrazioni semplici dell’etere, anche se supposta pari solo a quella della luce, che è di trecento milioni di metri al secondo, dovrebbe essere considerata più elevata. Si comprende, quindi, che il prodotto mv² possa essere significativo anche se la massa m delle particelle di etere è estremamente piccola.

In ogni caso, si può affermare che la piccolezza dell’urto di ogni singola particella, attraverso cui si manifesta l’energia dell’etere, è compensata dall’incredibile numero degli urti, la cui somma rappresenta quindi una forza enorme, capace di illustrare la forza di coesione e il legame indissolubile che unisce le particelle elementari ultra atomiche.

Nella trasformazione che abbiamo ipotizzato dall’etere alla materia, quando questa comincia a aggregarsi lentamente per formare la materia nebulosa, una grande parte dell’energia rappresentata dall’energia cinetica delle sue particelle, costrette a limitare sempre di più l’ampiezza dei loro movimenti a causa della pressione dell’onda di etere, si disperde lentamente sotto forma di luce delle nebulose o in altre forme, dispersa negli spazi dove viene raccolta e utilizzata dall’etere libero.

È importante capire bene come avvenga la trasformazione dell’energia. L’energia non può in alcun modo andare perduta o essere distrutta. Se una particella perde parte della sua energia, significa che tale energia è stata trasferita a un’altra particella, che di conseguenza aumenta la sua velocità di vibrazione. Questo è quello che si presume accada con l’energia che le particelle dell’etere perdono quando sono costrette a limitare sempre più i loro movimenti, riducendo proporzionalmente la lunghezza delle loro traiettorie e la loro velocità; questa energia viene progressivamente utilizzata dalle particelle di etere libero. Lo stesso accade con tutta l’energia che si irradia dagli astri sotto forme diverse; essa passa all’etere per trasformarsi dopo lunghi percorsi e confondersi con la vibrazione generale che pervade tutti gli spazi.

Il fenomeno opposto a quello assunto per la formazione delle nebulose, ovvero l’assorbimento di un’uguale quantità di energia, dovrebbe verificarsi quando, in circostanze particolari, la materia torna allo stato di etere libero.

Abbiamo ipotizzato che tali fenomeni si verifichino in centri speciali di concentrazione o dispersione che si trovano sparsi nello spazio, ciascuno dei quali corrisponderebbe a una stella o a una nebulosa.

La posizione relativa di questi centri o nodi sarebbe determinata da una certa legge, probabilmente legata alla lunghezza d’onda delle vibrazioni dell’etere e quindi le varie stelle e nebulose sarebbero collegate tra loro da un legame armonico che le mantiene in relazione reciproca, con una forza superiore alla gravità, la quale, data la vasta distanza che separa le stelle, si presume abbia un’influenza trascurabile. Similmente abbiamo ipotizzato che esista un collegamento, anch’esso dipendente dalla lunghezza d’onda dell’etere, che potrebbe spiegare il rapporto tra le distanze delle orbite dei vari pianeti rispetto al Sole, come suggerito dalla legge di Bode. Ciò indicherebbe l’esistenza di una forza secondaria e indiretta dovuta all’etere, diversa dalla gravità, che eserciterebbe la sua influenza anche a grandi distanze.

L’originale nebulosa solare con la sua forma appiattita e il sistema planetario attuale, con le orbite dei pianeti pressappoco su un unico piano, presentano alcune analogie con il fenomeno della lamina vibrante a cui abbiamo fatto riferimento: il Sole si troverebbe al centro di questa lamina e le orbite dei pianeti, originariamente occupate, secondo l’ipotesi di Laplace, da anelli di materia che successivamente si sono aggregati per formare i singoli pianeti, rappresenterebbero le linee nodali la cui posizione sarebbe in relazione con la lunghezza d’onda.

Fenomeni secondari di questa misteriosa forza potrebbero influenzare la rotazione degli astri attorno al proprio asse e il loro movimento di rivoluzione, poiché la semplice gravità non sarebbe sufficiente da sola a compensare le perdite prodotte dalle resistenze che, seppur minime, sono inevitabilmente presenti.

L’origine del calore solare, secondo le teorie moderne più accreditate, sarebbe dovuta alla concentrazione della materia che costituisce il Sole e così fin dalla sua origine, cioè partendo dalla nebulosa originaria, non si ha che una continua dispersione della primitiva quantità di energia, senza alcuna causa che possa in qualche modo ripristinarne anche solo una parte. Lo stesso vale per le stelle.

Anche le teorie che prevedono la caduta dei pianeti nel Sole o delle stelle in altre stelle, così come l’ipotesi meteorica che considera la caduta di materiale estraneo nel Sole, portano inevitabilmente alla fase finale: l’esaurimento di tutte le forze, l’estinzione definitiva di tutti gli astri. Tutte queste ipotesi non riescono a risolvere il problema più importante: l’origine e la fine dell’energia nell’universo.

La nostra ipotesi, invece, risolve completamente il problema senza lasciare lacune. L’ipotesi non parte dalla materia nebulosa già formata, ma risale all’origine di tutte le cose, alla stessa fonte dell’energia e della materia: l’etere. Questa concezione assume che solo lo spazio e l’etere, animati da energia, siano veramente eterni, mentre la materia con tutte le sue caratteristiche sarebbe soltanto un fenomeno occasionale dello stesso etere, che forse un tempo non esisteva e che potrebbe anche smettere di esistere.

Anche secondo la nostra ipotesi, l’energia che si irradia sotto forma di luce e calore dalle nebulose alle stelle ha la sua origine immediata nella concentrazione della materia. Tuttavia, nel nostro caso, il disperdimento di energia inizia molto prima, già nel momento in cui si verifica la presunta trasformazione dell’etere in materia nebulosa. Successivamente, subentra una nuova fase che inizia quando la materia è sufficientemente concentrata e ancora di più quando nelle stelle comincia a formarsi il primo nucleo liquido. Allora, a causa della resistenza che la materia densa oppone alla libera propagazione delle vibrazioni, una parte dell’energia dell’etere viene assorbita dagli attriti, generando una nuova fonte di calore che si manifesta con un aumento della temperatura del corpo celeste.

In questo modo si può affermare che il calore è un prodotto necessario dei grandi e densi aggregati di materia. L’energia dell’etere, che può penetrare liberamente fino al nucleo degli astri, una volta trasformata in calore, può uscire solo attraverso la materia per conduttività, molto più lentamente, permettendo così al calore di accumularsi gradualmente. Questo spiegherebbe il calore interno della Terra e l’alta temperatura del Sole, anche considerando che il calore originario sia, come comunemente si crede, dovuto alla concentrazione dallo stato nebuloso.

Accettando questa fonte di calore, possiamo dedurre una conseguenza importante: lo stato attuale degli astri, generalmente considerato transitorio, potrebbe in realtà essere visto come stabile, perché dipende da un vero equilibrio tra l’energia che provenendo dall’esterno tramite vibrazioni di etere resta intrappolata sotto forma di calore, e quella che viene dispersa dagli stessi astri tramite radiazioni luminose e calorifere, ritornando così all’etere senza alcuna perdita.

Schio, 1 aprile 1903.

Una replica a “Ipotesi dell’etere nella vita dell’universo”

  1. Molto interessante per capire i processi storici di sviluppo della conoscenza. Capita raramente di potere addentrarsi in una tappa di detto sviluppo, in genere si ricorda che il raggiungimento di certi traguardi è il risultato di un percorso lungo, contorto e faticoso, ma si tende a saltare le tappe e a concentrarsi sul punto di arrivo, sul traguardo appunto, qui abbiamo avuto l’opportunità di entrare per un po’ in un punto del processo.

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