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Introduzione alla teoria della Relatività Generale

Livello di difficoltà: università

  1. Il linguaggio della Relatività Generale
  2. Le geometrie non euclidee
  3. Il tensore metrico
  4. La convenzione di Einstein
  5. Trasformazione del tensore metrico per cambio di coordinate
  6. La curvatura gaussiana
  7. Il Principio di Equivalenza e i problemi della teoria newtoniana
  8. Il ruolo fondamentale del Principio di Equivalenza
  9. Le due formulazioni del Principio di Equivalenza
  10. L’equazione geodetica come conseguenza del Principio di Equivalenza
  11. Conclusioni

La Relatività Generale è la teoria fisica della gravità formulata da Einstein nel 1915. Essa si basa sul Principio di Equivalenza di gravitazione e inerzia, che stabilisce una connessione fondamentale tra il campo gravitazionale e la geometria dello spaziotempo, e sul Principio di Covarianza Generale (che verrà approfondito in un futuro articolo). La Relatività Generale ha cambiato radicalmente la nostra comprensione dello spazio e del tempo e le conseguenze di questa teoria, che indagheremo in questo e in futuri articoli, svelano nuovi fenomeni interessanti e affascinanti, come ad esempio l’esistenza dei buchi neri e la generazione delle onde gravitazionali.

Il linguaggio della Relatività Generale

Il linguaggio della Relatività Generale è quello dell’analisi tensoriale o, in una formulazione più moderna, quello della geometria differenziale. Non c’è modo di comprendere la teoria della gravità senza sapere cos’è una varietà o un tensore. Facendo però prima un passo indietro, all’interno di questa introduzione alla teoria cercheremo di rispondere innanzitutto alle seguenti domande:

Per iniziare a rispondere a tali domande, prima di tutto introduciamo il concetto di geometria non euclidea, che in un certo senso ha anticipato la teoria della Relatività Generale.

Le geometrie non euclidee

Nei decenni precedenti la Relatività di Einstein, la struttura geometrica alla base delle teorie fisiche era lo spazio piano della geometria euclidea, che si basa sui cinque postulati di Euclide. Tra questi il quinto è stato oggetto di una disputa millenaria: per oltre 2000 anni i matematici hanno cercato di dimostrare, senza riuscirci, che il quinto postulato è una conseguenza degli altri quattro. Il postulato afferma quanto segue: considera due linee rette e una terza linea retta che le attraversa. Se la somma dei due angoli interni (vedi figura n.1 seguente) è minore di 180°, le due rette si incontreranno in qualche punto dal lato degli angoli interni.

figura n.1: quinto postulato di Euclide

La soluzione del problema si deve a Gauss (1824), Bolyai (1832) e Lobačevskij (1826), che scoprirono indipendentemente una geometria che soddisfa tutti i postulati di Euclide tranne il quinto. Questa geometria è ciò che potremmo chiamare, in termini moderni, uno spazio bidimensionale con parametro di curvatura negativa. La rappresentazione analitica di questa geometria fu scoperta da Felix Klein nel 1870. Egli scoprì che un punto in questa geometria è rappresentato come una coppia di numeri reali (x1,x2) con

\left(x^{1}\right)^{2}+\left(x^{2}\right)^{2}<1

e la distanza tra due punti x e X, d(x, X), definita come:

d(x, X)=

a \cosh ^{-1}\left[\frac{1-x^{1} X^{1}-x^{2} X^{2}}{\sqrt{1-\left(x^{1}\right)^{2}-\left(x^{2}\right)^{2}} \sqrt{1-\left(X^{1}\right)^{2}-\left(X^{2}\right)^{2}}}\right]

dove a ha le dimensioni di una lunghezza. Lo spazio di questa geometria è infinito, perché

d(x, X) \rightarrow \infty

quando

\left(X^{1}\right)^{2}+\left(X^{2}\right)^{2} \rightarrow 1.

L’indipendenza logica del quinto postulato di Euclide era così stabilita.

Nel 1827 Gauss pubblicò le Disquisitiones generales circa superficies curvas, dove per la prima volta distingueva le proprietà interne, o intrinseche di una superficie, da quelle esterne, o estrinseche. Le prime sono quelle proprietà che possono essere misurate da un osservatore che vive sulla superficie, le seconde sono quelle proprietà derivanti dall’incorporamento della superficie in uno spazio dimensionale superiore. Gauss si rese conto che la proprietà misurabile intrinseca fondamentale è la distanza tra due punti, definita come il percorso più breve tra loro sulla superficie.

Ad esempio, un cilindro ha le stesse proprietà intrinseche di un piano. Il motivo è che può essere ottenuto da un foglio di carta piatto opportunamente arrotolato, senza stravolgerne i rapporti metrici, cioè senza stirare o strappare il foglio. Ciò significa che la distanza tra due punti qualsiasi sulla superficie del cilindro è la stessa del pezzo di carta originale e le linee parallele rimangono parallele. Quindi la geometria intrinseca di un cilindro è piatta. Questo non è vero nel caso di una sfera, poiché una sfera non può essere mappata su un piano senza distorsioni: le proprietà intrinseche di una sfera sono diverse da quelle di un piano. Va sottolineato che la geometria intrinseca di una superficie considera solo le relazioni tra punti sulla superficie.

Tuttavia, poiché un cilindro è per certi versi “rotondo”, pensiamo che sia una superficie curva. Ciò è dovuto al fatto che consideriamo il cilindro come una superficie bidimensionale in uno spazio tridimensionale e confrontiamo intuitivamente la curvatura delle linee che si trovano sul cilindro con le linee rette nello spazio piatto tridimensionale. Pertanto, la curvatura estrinseca si basa sulla nozione di spazio dimensionale superiore. Nel seguito ci occuperemo solo delle proprietà intrinseche delle superfici.

Il tensore metrico

La distanza tra due punti può essere definita in vari modi, e di conseguenza possiamo costruire diversi spazi metrici. Seguendo le indicazioni di Gauss, selezioneremo quegli spazi metrici per i quali, data una regione di spazio sufficientemente piccola, è possibile scegliere un sistema di coordinate 1, ξ2) tale che la distanza tra un punto P=(ξ1, ξ2), e il punto P’=(ξ1+dξ1, ξ2+dξ2) soddisfi il teorema di Pitagora:

d s^{2}=\left(d \xi^{1}\right)^{2}+\left(d \xi^{2}\right)^{2}.

D’ora in poi, quando nominiamo la distanza tra due punti, intendiamo la distanza tra due punti infinitamente vicini, come nell’equazione precedente.

Questa proprietà, cioè la possibilità di impostare un sistema di coordinate localmente euclidee, è una proprietà locale: si occupa solo delle relazioni metriche intrinseche per intorni infinitesimali. Pertanto, a meno che lo spazio non sia globalmente euclideo, le coordinate 1, ξ2) hanno solo un significato locale. Consideriamo ora un altro sistema di coordinate (x1, x2). Come si esprime la distanza tra due punti? Se valutiamo esplicitamente 1 e 2 in termini delle nuove coordinate troviamo:

\xi^{1}=\xi^{1}\left(x^{1}, x^{2}\right) \rightarrow d \xi^{1}=

=\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{1}} d x^{1}+\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{2}} d x^{2}


\xi^{2}=\xi^{2}\left(x^{1}, x^{2}\right) \rightarrow d \xi^{2}=

=\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{1}} d x^{1}+\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{2}} d x^{2}


d s^{2}= \left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{1}}\right)^{2} +\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{1}}\right)^{2}\right]\left(d x^{1}\right)^{2}+

+\left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{2}}\right)^{2}+\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{2}}\right)^{2}\right]\left(d x^{2}\right)^{2}+
+ 2\left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{1}}\right)\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{2}}\right)+\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{1}}\right)\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{2}}\right)\right] d x^{1} d x^{2}


= g_{11}\left(d x^{1}\right)^{2}+g_{22}\left(d x^{2}\right)^{2}

+2 g_{12} d x^{1} d x^{2}=g_{\alpha \beta} d x^{\alpha} d x^{\beta}.

Nell’ultima riga dell’equazione precedente abbiamo definito le seguenti grandezze:

g_{11}=\left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{1}}\right)^{2}+\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{1}}\right)^{2}\right]

g_{22}=\left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{2}}\right)^{2}+\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{2}}\right)^{2}\right]

g_{12}=\left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{1}}\right)\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{2}}\right)+\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{1}}\right)\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{2}}\right)\right],

ovvero abbiamo definito il tensore metrico gαβ, cioè un oggetto che ci permette di calcolare la distanza in qualsiasi sistema di coordinate. Come si evince dalle equazioni precedenti, gαβ è un tensore simmetrico: gαβ=gβα. In questo modo emerge in modo naturale la nozione di metrica associata ad uno spazio.

La convenzione di Einstein

Nello scrivere l’espressione per il termine ds2 nel paragrafo precedente, abbiamo adottato la convenzione secondo la quale se c’è un prodotto di due quantità aventi lo stesso indice che appare una volta come pedice e una volta come indice (indici fittizi), allora è implicita la presenza di una sommatoria. Ad esempio, se l’indice α assume i valori 1 e 2, secondo la convenzione appena descritta vale che:

v_{\alpha} V^{\alpha}=\sum_{i=1}^{2} v_{i} V^{i}=v_{1} V^{1}+v_{2} V^{2}.

Trasformazione del tensore metrico per cambio di coordinate

Vedremo ora come il tensore metrico si trasforma sotto una trasformazione di coordinate arbitraria. Supponiamo di conoscere gαβ espresso in termini della coordinata (x1, x2), e di voler passare da tale sistema di coordinate ad una nuovo sistema (x1’, x2’). Consideriamo innanzitutto il componente g11, definito come:

g_{11}=\left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{1}}\right)^{2}+\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{1}}\right)^{2}\right],

dove 1, ξ2) sono le coordinate del sistema di riferimento localmente euclideo e (x1, x2) due coordinate arbitrarie. Se ora passiamo da (x1, x2) a (x1’, x2’), dove x1=x1(x1’, x2’) e x2=x2(x1’, x2’), il tensore metrico nel nuovo sistema di coordinate (x1’, x2’), dopo alcuni passaggi risulterà:

g_{11}^{\prime} \equiv g_{1^{\prime} 1^{\prime}}=

=\left[\left(\frac{\partial \xi^{1}}{\partial x^{1^{\prime}}}\right)^{2}+\left(\frac{\partial \xi^{2}}{\partial x^{1^{\prime}}}\right)^{2}\right]=

=g_{11}\left(\frac{\partial x^{1}}{\partial x^{1^{\prime}}}\right)^{2}+g_{22}\left(\frac{\partial x^{2}}{\partial x^{1^{\prime}}}\right)^{2}+

+2 g_{12}\left(\frac{\partial x^{1}}{\partial x^{1^{\prime}}} \frac{\partial x^{2}}{\partial x^{1^{\prime}}}\right).

In generale possiamo scrivere:

g_{\alpha \beta}^{\prime}=g_{\mu \nu} \frac{\partial x^{\mu}}{\partial x^{\alpha^{\prime}}} \frac{\partial x^{\nu}}{\partial x^{\beta^{\prime}}}.

Questo è, pertanto, il modo in cui un tensore si trasforma sotto una trasformazione di coordinate arbitraria. Quindi, dato uno spazio in cui la distanza può essere espressa a partire dal teorema di Pitagora, se effettuiamo un’arbitraria trasformazione di coordinate, la conoscenza di gαβ ci permette di esprimere la distanza nel nuovo sistema di riferimento. È vero anche il viceversa: dato uno spazio in cui

d s^{2}=g_{\alpha \beta} d x^{\alpha} d x^{\beta},

se questo spazio appartiene alla classe definita da Gauss, in un dato punto è sempre possibile scegliere un sistema di coordinate localmente euclidee α) tale che:

d s^{2}=\left(d \xi^{1}\right)^{2}+\left(d \xi^{2}\right)^{2}.

Questo concetto può essere generalizzato a uno spazio di dimensioni arbitrarie: il tensore metrico determina le proprietà intrinseche di uno spazio metrico.

La curvatura gaussiana

Vogliamo ora definire una funzione di gαβ e delle sue derivate prima e seconda, che dipende dalle proprietà intrinseche della superficie, ma non dipende dal particolare sistema di coordinate scelto. Gauss mostrò che nel caso di superfici bidimensionali questa funzione può essere determinata, e da lui prende il nome di curvatura gaussiana, definita come:

k\left(x^{1}, x^{2}\right)=\frac{1}{2 g}\left[2 \frac{\partial^{2} g_{12}}{\partial x^{1} \partial x^{2}}-\frac{\partial^{2} g_{11}}{\partial x^{2}}-\frac{\partial^{2} g_{22}}{\partial x^{1^{2}}}\right]

-\frac{g_{22}}{4 g^{2}}\left[\left(\frac{\partial g_{11}}{\partial x^{1}}\right)\left(2 \frac{\partial g_{12}}{\partial x^{2}}-\frac{\partial g_{22}}{\partial x^{1}}\right)-\left(\frac{\partial g_{11}}{\partial x^{2}}\right)^{2}\right]

+\frac{g_{12}}{4 g^{2}}\left[\left(\frac{\partial g_{11}}{\partial x^{1}}\right)\left(\frac{\partial g_{22}}{\partial x^{2}}\right)-2\left(\frac{\partial g_{11}}{\partial x^{2}}\right)\left(\frac{\partial g_{22}}{\partial x^{1}}\right)\right.

\left.+\left(2 \frac{\partial g_{12}}{\partial x^{1}}-\frac{\partial g_{11}}{\partial x^{2}}\right)\left(2 \frac{\partial g_{12}}{\partial x^{2}}-\frac{\partial g_{22}}{\partial x^{1}}\right)\right]

-\frac{g_{11}}{4 g^{2}}\left[\left(\frac{\partial g_{22}}{\partial x^{2}}\right)\left(2 \frac{\partial g_{12}}{\partial x^{1}}-\frac{\partial g_{11}}{\partial x^{2}}\right)-\left(\frac{\partial g_{22}}{\partial x^{1}}\right)^{2}\right].

dove g è il determinante della metrica gαβ:

g=g_{11} g_{22}-g_{12}^{2}.

Ad esempio, data una superficie sferica di raggio a, con metrica ds2 = a22 + a2sin2θdφ2 (coordinate polari) si trova:

k=\frac{1}{a^{2}},

indipendentemente dal modo in cui vengono scelte le coordinate per descrivere la superficie sferica.

Abbiamo quindi visto che è possibile selezionare una classe di spazi bidimensionali in cui possiamo individuare, nelle vicinanze di qualsiasi punto, un sistema di coordinate 1, ξ2) tale che la distanza tra due punti vicini sia data dal teorema di Pitagora. Poi abbiamo definito il tensore metrico gαβ, che permette di calcolare la distanza in un sistema di coordinate arbitrario e abbiamo derivato la legge secondo la quale gαβ si trasforma quando cambiamo sistema di riferimento. Infine, abbiamo visto che esiste una grandezza scalare, la curvatura gaussiana, che esprime le proprietà intrinseche di una superficie: è funzione di gαβ e delle sue derivate prima e seconda, ed è invariante per trasformazioni di coordinate.

Questi risultati possono essere estesi a uno spazio D-dimensionale arbitrario. In particolare, come potete immaginare, ci interessa il caso D=4 e selezioneremo quegli spazi, o meglio, quegli spazitempi, per i quali la distanza è quella già valida per la Relatività Ristretta:

d s^{2}=-\left(d \xi^{0}\right)^{2}+\left(d \xi^{1}\right)^{2}

+\left(d \xi^{2}\right)^{2}+\left(d \xi^{3}\right)^{2}.

In uno spazio D-dimensionale, però, abbiamo bisogno di più di una funzione per descrivere le proprietà interne di una superficie. Infatti, poiché gαβ è simmetrico, ci sono solo D(D+1)/2 componenti indipendenti. Inoltre, possiamo scegliere D coordinate arbitrarie e imporre tra di esse D relazioni funzionali. Pertanto il numero di funzioni indipendenti che descrivono le proprietà interne dello spazio sarà:

C=\frac{D(D+1)}{2}-D=\frac{D(D-1)}{2}.

Se D=2, come abbiamo visto poco fa, C=1. Se D=4, invece, abbiamo che C=6, quindi ci saranno 6 invarianti da definire per il nostro spaziotempo quadridimensionale. Fu Riemann (1826-1866) e successivamente furono Christoffel, Levi Civita, Ricci e Beltrami che studiarono come trovare queste quantità invarianti.

Il Principio di Equivalenza e i problemi della teoria newtoniana

In questa sezione cercheremo di capire come mai la teoria newtoniana della gravità divenne, a un certo punto, inappropriata per descrivere correttamente il campo gravitazionale. La teoria newtoniana della gravità fu pubblicata nel 1685 nel “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica“, che contiene un’incredibile varietà di risultati fondamentali e, tra questi, i capisaldi della fisica classica:

\vec{F}=m_I \vec{a}

dove \vec F è la forza a cui è soggetta la massa inerziale mI e \vec a è l’accelerazione,

\vec F_G=m_G \vec{g}

dove \vec F_G è la forza a cui è soggetta la massa gravitazionale mG, \vec g è l’accelerazione di gravità, o campo gravitazionale:

\vec{g}=-\frac{G \sum_{i} M_{G i}\left(\vec{r}-\vec{r}{i}^{\prime}\right)}{\left|\vec{r}-\vec{r}{i}\right|^{3}}

con MGi i-esima massa gravitazionale sorgente del campo gravitazionale. \vec g dipende dalla posizione della particella massiva rispetto alle altre masse che generano il campo, e decresce con l’inverso del quadrato della distanza:

g \sim \frac{1}{r^{2}}.

Le due leggi combinate mostrano chiaramente che un corpo soggetto a un campo gravitazionale cade con un’accelerazione data da:

\vec{a}=\left(\frac{m_{G}}{m_{I}}\right) \vec{g}.

Se il termine mG/mI è una costante indipendente dal corpo, l’accelerazione è la stessa per tutti i corpi che cadono, indipendentemente dalla loro massa. Galileo (1564-1642) aveva già scoperto che ciò è vero (entro i limiti sperimentali) e lo stesso Newton sperimentò l’equivalenza tra massa inerziale e massa gravitazionale studiando il moto di pendoli di diversa composizione e uguale lunghezza, non trovando differenze nei loro periodi. La validità del cosiddetto Principio di Equivalenza (tra mG e mI) era il fulcro degli argomenti di Newton per l’universalità della sua legge di gravitazione; infatti, dopo aver descritto i suoi esperimenti con diversi pendoli, nei Principia dice: “ma, senza dubbio, la natura della gravità verso i pianeti è la stessa che verso la terra”.

Da allora una serie di esperimenti ha confermato questo risultato cruciale. Tra questi l’esperimento Eotvos nel 1889 (precisione di 1 parte su 109 ), l’esperimento Dicke nel 1964 (1 parte 1011), Braginsky nel 1972 (1 parte su 1012) e, più recentemente, gli esperimenti Lunar-Laser Ranging (1 parte su 1013).

Ora, nonostante gli enormi successi raccolti durante i secoli dalla teoria newtoniana per descrivere un’enorme serie di fenomeni, già nel 1845 Le Verrier aveva osservato anomalie nel moto di Mercurio. Egli trovò che la precessione del perielio di 35 secondi d’arco al secolo superava il valore dovuto alla perturbazione introdotta dagli altri pianeti, prevista dalla teoria di Newton. Nel 1882 Newcomb confermò questa discrepanza, stimando un valore più alto, 43 secondi d’arco al secolo. Per spiegare questo effetto, gli scienziati svilupparono dei modelli che prevedevano l’esistenza di una certa quantità di materia interplanetaria e nel 1896 Seelinger dimostrò che una distribuzione ellissoidale della materia che circonda il Sole potrebbe spiegare la precessione osservata.

Oggi sappiamo che tali modelli erano superflui e che la ragione della precessione eccessivamente elevata del perielio di Mercurio ha un’origine relativistica.

Da un punto di vista più concettuale, noi sappiamo che le equazioni della meccanica newtoniana sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Galileo:

\vec{x}^{\prime} =R_{0} \vec{x}+\vec{v} t+\vec{d}_{0}

t^{\prime} =t+\tau,

dove R0 è la matrice ortogonale costante che esprime come viene ruotato il secondo sistema di riferimento (\vec x',t') rispetto al primo sistema (\vec x,t), \vec{v} è la velocità relativa dei due sistemi e \vec{d}_{0} la distanza iniziale tra le due origini. I dieci parametri (3 angoli di Eulero, 3 componenti per \vec{v} e \vec{d} con il time shift \tau ) identificano il gruppo di Galileo.

L’invarianza delle equazioni di Newton rispetto alle trasformazioni di Galileo implica l’esistenza di sistemi inerziali dove valgono le leggi della Meccanica. Cosa determina, quindi, quali sistemi sono effettivamente inerziali? Secondo Newton la risposta è che deve esistere uno spazio assoluto e i sistemi inerziali sono quelli in moto relativo uniforme rispetto a tale spazio assoluto.

I problemi seri, però, iniziarono con la formulazione della teoria dell’elettrodinamica presentata da Maxwell nel 1864. Le equazioni di Maxwell stabiliscono che la velocità della luce nel vuoto è una costante universale. Si capì presto che tali equazioni non sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Galileo (come si può facilmente verificare, considerando l’incompatibilità tra l’esistenza di una velocità costante e il modo in cui si sommano le velocità secondo Galileo).

Per giustificare questa discrepanza, Maxwell formulò l’ipotesi che la luce non si propaghi realmente nel vuoto: le onde elettromagnetiche, secondo tale ipotesi, sono trasportate da un mezzo, l’etere luminifero, e le equazioni sono invarianti solo rispetto a un insieme di sistemi inerziali galileiani che sono a riposo rispetto all’etere.

Tuttavia, nel 1887 Michelson e Morley dimostrarono che la velocità della luce è la stessa, entro 5km/s (oggi la precisione è inferiore a 1km/s), lungo le direzioni del moto orbitale della Terra e trasversalmente ad esso. Come si può giustificare questo risultato? Una possibilità è dire che la Terra è in quiete rispetto all’etere; ma questa ipotesi è del tutto insoddisfacente, poiché costituirebbe un ritorno arbitrario e poco fondato a una visione antropocentrica del mondo. Un’altra possibilità, più pragmatica, è semplicemente affermare che l’etere non esiste, e accettare il fatto che la velocità della luce è la stessa in ogni direzione, qualunque sia la velocità della sorgente. Questa era ovviamente l’unica spiegazione ragionevole.

Ora, però, il problema è di trovare la trasformazione di coordinate rispetto alla quale le equazioni di Maxwell sono invarianti. Il problema fu risolto da Einstein nel 1905. Il fisico mostrò che le trasformazioni di Galileo devono essere sostituite dalle trasformazioni di Lorentz:

x^{\alpha \prime}=L_{\gamma}^{\alpha} x^{\gamma},

dove

\gamma=\left(1-\frac{v^{2}}{c^{2}}\right)^{-\frac{1}{2}}

e


L_{0}^{0}=\gamma, \quad L_{j}^{0}=L_{0}^{j}=\frac{\gamma}{c} v_{j},

L_{j}^{i}=\delta_{j}^{i}+\frac{\gamma-1}{v^{2}} v_{i} v_{j}

con i, j=1, 2, 3 e vi componenti della velocità del cosiddetto boost, cioè dell’allontanamento dell’origine del secondo sistema di riferimento rispetto al primo, con i due assi x e x’ dei due sistemi coincidenti e senza rotazioni a tali assi.

Come ci si è subito resi conto, però, mentre le equazioni di Maxwell sono invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz, le equazioni di Newton non lo sono e, di conseguenza, ci si dovrebbe porre il problema di come modificare le equazioni della meccanica e della gravità in modo tale che diventino invarianti con rispetto alle trasformazioni di Lorentz. Fu proprio di ciò che si occupò Einstein. In altre parole, formulando la relatività Ristretta, Einstein creò una riformulazione della meccanica compatibile con le trasformazioni di Lorentz, con tutte le conseguenze che conosciamo (scoperta della contrazione delle lunghezze, dilatazione dei tempi, equivalenza massa-energia, ecc.)

Il ruolo fondamentale del Principio di Equivalenza

Consideriamo il moto di una particella non relativistica che si muove in un campo gravitazionale costante. Sia \vec{F}_{k} qualche altra forza agente sulla particella. Secondo la meccanica newtoniana, le equazioni del moto sono:

m_{I} \frac{d^{2} \vec{x}}{d t^{2}}=m_{G} \vec{g}+\sum_{k} \vec{F}_{k}.

Immaginiamo ora di trovarci all’interno di un ascensore che sta cadendo liberamente (cioè accelerando) nello stesso campo gravitazionale; cioè equivale ad effettuare la seguente trasformazione di coordinate:

\vec{x}^{\prime}=\vec{x}-\frac{1}{2} \vec{g} t^{2}, \quad t^{\prime}=t.

In questo nuovo sistema di riferimento, le equazioni del moto diventano:

m_{I}\left[\frac{d^{2} \vec{x}^{\prime}}{d t^{2}}+\vec{g}\right]=m_{G} \vec{g}+\sum_{k} \vec{F}_{k}.

Poiché per il Principio di Equivalenza mI=mG, e poiché questo è vero per qualsiasi particella, l’equazione precedente diventa:

m_{I} \frac{d^{2} \vec{x}^{\prime}}{d t^{2}}=\sum_{k} \vec{F}_{k}.

Confrontando le due equazioni del moto ottenute, una valida per l’osservatore iniziale e una valida per l’osservatore in caduta libera:

risulta chiaro che un osservatore O’ che si trova nell’ascensore in caduta libera nel campo gravitazionale vede le stesse leggi della fisica dell’osservatore iniziale O, ma non percepisce il campo gravitazionale.

Questa osservazione è cruciale per la teoria della gravità e merita un’ulteriore approfondimento. La gravità si distingue da tutte le altre forze perché tutti i corpi, a parità di velocità iniziale, seguono la stessa traiettoria in un campo gravitazionale, indipendentemente dalla loro costituzione interna (ammesso il loro campo gravitazionale sia abbastanza piccolo da non influenzare sensibilmente quello a cui sono soggetti). Non è così, ad esempio, per le forze elettromagnetiche, che agiscono sui corpi carichi facendo assumere loro delle traiettorie che dipendono dal rapporto tra la loro carica elettrica e la loro massa, che non è uguale per tutte le particelle. Allo stesso modo, altre forze, come le interazioni forti e deboli, influenzano le diverse particelle in modo diverso. È questa caratteristica distintiva della gravità che rende possibile descrivere gli effetti della gravità in termini di geometria curva, come verrà approfondito in futuri articoli.

Le due formulazioni del Principio di Equivalenza

Il Principio di Equivalenza, alla base della teoria della Relatività Generale, è esprimibile in due forme, una forte e una debole.

Il Principio di Equivalenza forte sostiene che in un campo gravitazionale arbitrario, in un dato punto dello spaziotempo, possiamo sempre scegliere un sistema di riferimento localmente inerziale tale che, in una regione sufficientemente piccola che circonda quel punto, tutte le leggi fisiche assumano la stessa forma che assumerebbero in assenza di gravità, cioè la forma prevista dalla Relatività Speciale.

Il Principio di Equivalenza in forma debole, invece, sostiene che in un campo gravitazionale arbitrario, in un dato punto dello spaziotempo, possiamo sempre scegliere un sistema di riferimento localmente inerziale tale che, in una regione sufficientemente piccola che circonda quel punto, un corpo in caduta libera assume la stessa traiettoria che assumerebbe assenza di gravità.

Le precedenti formulazioni del Principio di Equivalenza assomigliano molto all’assioma che Gauss scelse come base per le geometrie non euclidee, e cioè: in un dato punto dello spazio esiste un sistema di riferimento localmente euclideo tale che, in una regione sufficientemente piccola che circonda quel punto, la distanza tra due punti è data dal teorema di Pitagora.

Il Principio di Equivalenza afferma che in un sistema localmente inerziale tutte le leggi della fisica devono coincidere, localmente, con quelle della Relatività Speciale, e di conseguenza in questo sistema la distanza tra due punti deve coincidere con l’espressione di Minkowsky:

d s^{2}=-c^{2} d t^{2}+d x^{2}+d y^{2}+d z^{2}=

=-\left(d \xi^{0}\right)^{2}+\left(d \xi^{1}\right)^{2}+

+\left(d \xi^{2}\right)^{2}+\left(d \xi^{3}\right)^{2}.

Ci aspettiamo quindi che le equazioni relativistiche della gravità assomiglino molto a quelle della geometria di Riemaniann. In particolare, poiché Gauss definiva le proprietà interne delle superfici curve in termini delle derivate ∂ξα/∂xμ (che a loro volta definivano la metrica, come abbiamo visto prima), dove ξα sono le coordinate localmente euclidee e le xμ sono coordinate arbitrarie, in modo analogo ci aspettiamo che le gli effetti di un campo gravitazionale saranno descritti in termini delle derivate ∂ξα/∂xμ dove stavolta le ξα sono le coordinate localmente inerziali e le xμ sono coordinate arbitrarie. Tutto questo seguirà dal Principio di Equivalenza. Finora abbiamo solo stabilito che, come conseguenza del Principio di Equivalenza, esiste una connessione tra il campo gravitazionale e il tensore metrico. Ma quale connessione?

L’equazione geodetica come conseguenza del Principio di Equivalenza

In quest’ultima parte cominciamo ad esplorare quali sono le conseguenze dirette del Principio di Equivalenza. Vogliamo cioè trovare l’equazione del moto di una particella che si muove sotto l’azione esclusiva di un campo gravitazionale (cioè in caduta libera), quando questo moto è valutato da un osservatore che si trova in un sistema di riferimento arbitrario.

Lavoreremo, naturalmente, in uno spaziotempo quadridimensionale con coordinate:

\left(x^{0}=c t, x^{1}, x^{2}, x^{3}\right)

dove x1, x2 e x3 sono coordinate spaziali, t è la coordinata temporale e c è la velocità della luce nel vuoto.

Nello spaziotempo piatto di Minkowski, cioè nello spaziotempo della Relatività Ristretta (quindi in assenza di gravità) il tensore metrico è:

\eta_{\mu \nu}=diag(-1,1,1,1).

Per prima cosa iniziamo ad analizzare il moto di una particella in un sistema localmente inerziale, quello in caduta libera con la particella. Secondo il Principio di Equivalenza, in tale sistema la distanza tra due punti vicini è

d s^{2}=-\left(d x^{0}\right)^{2}+\left(d x^{1}\right)^{2}+

+\left(d x^{2}\right)^{2}+\left(d x^{3}\right)^{2}=

=\eta_{\mu \nu} d \xi^{\mu} d \xi^{\nu}

Se \tau è il tempo proprio della particella e se viene scelto come coordinata temporale, per quanto detto in precedenza l’equazione del moto è:

\frac{d^{2} \xi^{\alpha}}{d \tau^{2}}=0.

Passiamo ora a un sistema di riferimento in cui le coordinate sono etichettate xα= xαα), cioè assegniamo una legge di trasformazione che permette di esprimere le nuove coordinate in funzione delle vecchie. In un futuro articolo chiariremo e renderemo rigorosi, naturalmente, tutti i concetti che stiamo ora utilizzando, ma in questa introduzione l’importante è comprendere il significato e l’importanza di alcuni risultati in modo introduttivo. Nel nuovo riferimento xα la distanza è:

d s^{2}=\eta_{\alpha \beta} \frac{\partial \xi^{\alpha}}{\partial x^{\mu}} d x^{\mu} \frac{\partial \xi^{\beta}}{\partial x^{\nu}} d x^{\nu}=

=g_{\mu \nu} d x^{\mu} d x^{\nu}

dove abbiamo definito il tensore metrico gμν come:

g_{\mu \nu}=\frac{\partial \xi^{\alpha}}{\partial x^{\mu}} \frac{\partial \xi^{\beta}}{\partial x^{\nu}} \eta_{\alpha \beta}.

Questa formula è la generalizzazione quadridimensionale della formula gaussiana bidimensionale vista inizialmente. Nel nuovo sistema l’equazione del moto della particella diventa, dopo alcuni calcoli:

\frac{d^{2} x^{\alpha}}{d \tau^{2}}+\left[\frac{\partial x^{\alpha}}{\partial \xi^{\lambda}} \frac{\partial^{2} \xi^{\lambda}}{\partial x^{\mu} \partial x^{\nu}}\right]\left[\frac{d x^{\mu}}{d \tau} \frac{d x^{\nu}}{d \tau}\right]=0.

Se ora definiamo la seguenti quantità, detta connessione affine:

\Gamma_{\mu \nu}^{\alpha}=\frac{\partial x^{\alpha}}{\partial \xi^{\lambda}} \frac{\partial^{2} \xi^{\lambda}}{\partial x^{\mu} \partial x^{\nu}},

l’equazione del moto diventa:

\frac{d^{2} x^{\alpha}}{d \tau^{2}}+\Gamma_{\mu \nu}^{\alpha}\left[\frac{d x^{\mu}}{d \tau} \frac{d x^{\nu}}{d \tau}\right]=0.

Abbiamo trovato l’equazione geodetica, cioè l’equazione del moto di una particella in caduta libera in un campo gravitazionale osservata in un sistema di coordinate xα arbitrario.

Analizziamo brevemente questa equazione. Abbiamo visto che, se ci troviamo in un sistema localmente inerziale, dove per il Principio di Equivalenza siamo in grado di eliminare la forza gravitazionale, l’equazione del moto è quella di una particella libera:

\frac{d^{2} \xi^{\alpha}}{d \tau^{2}}=0.

Se invece passiamo a un altro sistema di riferimento, in tale sistema percepiamo il campo gravitazionale (e in aggiunta tutte le forze apparenti come le forze centrifughe, di Coriolis e di trascinamento). In questo nuovo riferimento l’equazione della particella libera si trasforma appunto nell’equazione geodetica:

\frac{d^{2} x^{\alpha}}{d \tau^{2}}+\Gamma_{\mu \nu}^{\alpha}\left[\frac{d x^{\mu}}{d \tau} \frac{d x^{\nu}}{d \tau}\right]=0.

Il termine aggiuntivo:

\Gamma_{\mu \nu}^{\alpha}\left[\frac{d x^{\mu}}{d \tau} \frac{d x^{\nu}}{d \tau}\right]

esprime la forza gravitazionale per unità di massa che agisce sulla particella. Se fossimo nell’ambito della meccanica newtoniana, diremmo che questo termine è il campo gravitazionale \vec{g} (più le accelerazioni apparenti addizionali, ma supponiamo per il momento di scegliere un riferimento in cui esse svaniscono). Ricordiamo, inoltre, che il campo gravitazionale è (meno) il gradiente del potenziale gravitazionale.

Se osserviamo quanto ottenuto, notiamo che la connessione affine Γαμν contiene le derivate seconde di α). Poiché il tensore metrico contiene le derivate prime di α), è chiaro che la connessione affine conterrà le derivate prime del tensore metrico. In effetti si dimostra che:

\Gamma_{\lambda \mu}^{\sigma}=\frac{1}{2} g^{\nu \sigma}\biggl[{\frac{\partial g_{\mu \nu}}{\partial x^{\lambda}}+\frac{\partial g_{\lambda \nu}}{\partial x^{\mu}}-\frac{\partial g_{\lambda \mu}}{\partial x^{\nu}}}\biggr].

Così, per individuare un’analogia con le equazioni newtoniane, possiamo dire che la connessione affine è la generalizzazione relativistica del campo gravitazionale newtoniano, mentre il tensore metrico è la generalizzazione relativistica del potenziale gravitazionale newtoniano.

Conclusioni

Abbiamo visto che una volta introdotto il Principio di Equivalenza, le nozioni di metrica e di connessione affine emergono in modo naturale per descrivere gli effetti di un campo gravitazionale sul moto dei corpi in caduta libera. Va sottolineato che il tensore metrico rappresenta il potenziale gravitazionale, come risulta dall’equazione geodetica. Ma esso è anche un’entità geometrica poiché, attraverso la nozione di distanza, caratterizza la geometria dello spaziotempo. Questo doppio ruolo, fisico e geometrico del tensore metrico, è una diretta conseguenza del Principio di Equivalenza.

Ora possiamo rispondere alla domanda “perché abbiamo bisogno di un tensore per descrivere un campo gravitazionale?”

La risposta è contenuta proprio nel Principio di Equivalenza.

Fonti:

3 risposte a “Introduzione alla teoria della Relatività Generale”

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