È davvero paradossale che, proprio mentre le intelligenze artificiali mostrano di saper replicare con una rapidità crescente molte delle abilità che per anni abbiamo definito “spendibili nel mondo del lavoro”, la scuola italiana si sia progressivamente piegata all’idea che il suo compito principale sia sfornare competenze immediatamente utilizzabili in contesti produttivi che cambiano più in fretta dei programmi ministeriali. Il paradosso non sta soltanto nella rincorsa a un bersaglio mobile (la tecnologia si muove a scatti, e ciò che oggi è richiesto domani sarà già obsoleto) ma nel fatto che, nel tentativo di rendere la formazione “utile”, si sono spesso sacrificati proprio quegli orizzonti di senso, quella coltivazione del giudizio, quella capacità di interpretare la complessità umana e sociale che, di fronte alle macchine (più precisamente alle reti neurali), diventano il vero vantaggio comparativo degli esseri umani. Se un modello linguistico può generare il riassunto, l’e-mail, il codice, la bozza di un progetto, ha davvero senso concentrare anni di scuola sulla standardizzazione di performance replicabili, lasciando ai margini la fatica, lenta e preziosa, di imparare a domandare, dubitare, argomentare e scegliere?
Quella legata alle “competenze” non è, in realtà, una cattiva idea: nasce per reagire alla tendenza verso una conoscenza puramente teorica, per collegare ciò che si studia alla vita e al lavoro. Ma il modo in cui è stata spesso interpretata e misurata ha ridotto questa intuizione a un elenco di micro-obiettivi operativi, caselle da spuntare e griglie da riempire, in cui il valore formativo dell’investimento sul lungo periodo è sostituito dalla logica del risultato immediato. In questa traduzione burocratica, le aule smettono di essere luoghi in cui si impara a vedere il mondo con occhi più attenti e diventano contenitori di “task” allenabili; e quando la competenza è intesa come la capacità di riprodurre procedure, la tecnologia non solo aiuta, ma sostituisce. Un algoritmo programmato per pattern è bravissimo a simulare procedure: è meno bravo a sostenere un dissenso argomentato, a reggere l’urto di un paradosso morale, a riconoscere il valore di una scelta che non massimizza un indicatore, ma preserva un principio.
La scuola non può farsi officina di addestramento a mansioni, perché l’addestramento è, per definizione, fragile: basta cambiare l’ambiente e la procedura non funziona più. L’educazione, al contrario, è robusta e adattiva: se dà categorie di pensiero e strumenti di interpretazione del mondo, allora prepara a risolvere problemi che non esistono ancora. Chi ha imparato a ragionare su un testo difficile saprà orientarsi anche in un documento tecnico nuovo; chi ha discusso seriamente un dilemma etico non si perderà nella retorica della neutralità tecnologica. Chi ha incontrato la bellezza di un teorema o di una poesia riconoscerà, anche nel lavoro, la differenza tra il fare e il fare bene. È questa la sostanza di una formazione che non è “anti-lavoro”, ma è più grande del lavoro, proprio perché non si lascia definire dal mercato, aiuta a portare nel mercato nuovi principi e nuovi fini.
Le intelligenze artificiali accelerano e radicalizzano questa esigenza. Già oggi sistemi generativi scrivono codici funzionanti, producono grafici, riassumono report, precompilano contratti e manuali, sostengono ricerche preliminari, inventano slogan, propongono bozze di lezione. Dovremmo domandarci, con onestà, quali compiti cognitivi siano destinati a diventare “comodity” e quali invece continueranno a richiedere neuroni umani. Quando la scuola occupa la maggior parte del suo tempo nell’addestrare alla correttezza formale di prodotti che le macchine già assemblano, sottrae tempo alla costruzione di quel giudizio che permette di usare, correggere, o contraddire quei prodotti. Se un sistema può scrivere l’introduzione di una relazione, lo studente deve essere messo in grado di verificare se l’introduzione ha senso, se non compie salti logici ingiustificati, se non omette ciò che è scomodo, se non scivola in pregiudizi nascosti: questa è analisi, non procedura. È responsabilità, non automatismo.
Spesso si obietta dicendo che il mondo del lavoro chiede “soft skills” e che la scuola, concentrandosi sulle competenze, abbia voluto proprio rispondere a questa domanda. Ma anche qui la confusione è rischiosa: la comunicazione, la collaborazione e il problem solving sono parole nobili ma che, se ridotte a stereotipi, diventano cliché. Non si impara a collaborare in astratto, ma condividendo davvero un compito significativo. Non si impara a comunicare consegnando una presentazione impeccabile nella forma e vuota nella sostanza, non si impara a risolvere problemi se i problemi sono finti e non chiedono di mettere in tensione conoscenze diverse, di prendere decisioni sotto incertezza, di rendere conto delle conseguenze. La scuola può fare tutto questo solo se resta, prima di tutto, un luogo serio di contenuti, di domande che pungono, di conoscenze che resistono, di esercizi che allenano l’attenzione e il carattere. Le “soft skills” non sono un surrogato della cultura, ma l’aria che la cultura respira per muoversi. Senza un corpo di idee diventano una sorta di galateo superficiale.
C’è poi un tema di giustizia. Quando la scuola abdica alla sua missione formativa e si limita a insegnare ciò che “serve” subito, le famiglie culturalmente forti continueranno a offrire ai propri figli biblioteche, conversazioni, viaggi e confronto. Chi non ha quelle risorse rimane con una collezione di tecniche spendibili finché conviene al mercato. Si tratta di un vero e proprio moltiplicatore di disuguaglianze: i privilegiati coltivano il giudizio, gli altri non hanno modo di farlo. In un’epoca in cui l’accesso alle informazioni è teoricamente democratizzato, privare la scuola della sua funzione più alta, cioè alfabetizzare al senso delle cose, significa consegnare ai più fragili degli strumenti che non sanno per quali fini usare. Una società di lavoratori efficienti e di cittadini smarriti è una società che si espone, senza anticorpi, alla manipolazione e alla rassegnazione.
L’idea che la scuola debba “preparare al lavoro” è, presa alla lettera, ingannevole. La scuola deve preparare al futuro, non al posto di lavoro: deve preparare ad attraversare cambi di paradigma, transizioni tecnologiche, crisi sociali e ambientali. Deve formare persone capaci di dare un nome ai propri desideri, di riconoscere il bene comune, di dire “no” quando tutti dicono “sì”, di innovare senza perdere la memoria. È chiaro che questo non è un invito a chiudersi nella torre d’avorio ma, al contrario, è un invito a riaprire porte e anche finestre, a far dialogare le discipline, a portare in aula problemi veri (scientifici, economici, civili, artistici, ecc.) senza ridurli a “project work” cosmetici. Le tecnologie, comprese le intelligenze artificiali, vanno portate in classe come strumenti potenti, ma vanno continuamente interrogate: chi le ha progettate? Con quali dati? Con quali rischi? Quali responsabilità comporta il loro uso? Quale immagine di essere umano presuppongono?
Se si accetta questo, le conclusioni diventano nitide. Primo: la dicotomia tra conoscenze e competenze è falsa. Senza conoscenze non ci sono competenze, ci sono solo routine senza fine. Senza un lavoro serio sulle lingue, sulla storia, sulla matematica, sulla filosofia, sulle scienze e sull’arte, le abilità restano gusci vuoti. Secondo: la valutazione deve tornare a essere l’arte di accompagnare un cammino, non l’ossessione per gli indicatori. Valutare è necessario, ma ciò che conta di più non sempre si lascia valutare facilmente. Terzo: i docenti vanno messi nelle condizioni di fare il mestiere più difficile, che è accendere domande e pretendere rigore, non insegnare a completare una checklist. Quarto: l’AI non è un nemico da bandire né un oracolo da venerare, è un banco di prova per l’educazione. Obbliga a rifondare il processo educativo intorno al pensiero critico e alla capacità di leggere il mondo.
L’assurdità di vedere la scuola come un’anticamera del lavoro sta tutta qui: nel confondere il mezzo con il fine. Il lavoro è una dimensione fondamentale dell’esistenza di (quasi) tutti noi, ma il suo senso nasce altrove, nella qualità delle relazioni, nella responsabilità verso gli altri e verso il pianeta, nell’immaginazione di futuri desiderabili, nella gioia di capire. Una scuola che prepara “solo al lavoro” prepara male anche al lavoro, perché consegna persone addestrate a fare, non formate a pensare; e nel momento in cui le macchine sanno già fare moltissimo, anche a livello di competenze, quell’addestramento non basta più. Una scuola che prepara alla vita, invece, prepara anche al lavoro proprio perché non si fa definire da esso: insegna a riconoscere gli scopi prima dei mezzi, i valori prima degli strumenti, le domande prima delle risposte.
